martedì 19 luglio 2016

Egualitarismo ed élite – Parte II





di Murray N. Rothbard


La ferrea legge dell'oligarchia

Una delle ragioni per cui il programma politico egualitarista deve portare all'installazione di una nuova élite politica coercitiva, è che le gerarchie e le disuguaglianze nel processo decisionale sono inevitabili in qualunque organizzazione umana che raggiunge un qualunque grado di successo nell'ottenimento dei propri scopi.

Robert Michels osservò per primo questa Ferrea Legge dell'Oligarchia vedendo i partiti Socialdemocratici in Europa nel tardo diciannovesimo secolo, impegnati ufficialmente all'uguaglianza e all'abolizione della divisione del lavoro, in pratica diretti da una piccola élite al comando. E non c'è nulla, al di fuori delle fantasie egualitariste, di sbagliato con questo fatto umano, o legge della natura. In ogni gruppo o organizzazione, ci sarà sempre l'ascesa di un ristretto gruppo di comando di quelli più capaci, energici, e dediti all'organizzazione. Conosco, per esempio, una piccola società musicale a New York, ma pur sempre di successo. Sebbene ci sia una commissione eletta annualmente dai propri membri, il gruppo è stato governato per anni dal ruolo benevolo, ma assolutamente autocratico, del suo presidente, una donna molto intelligente, innovativa e, sebbene impiegata a tempo pieno altrove, capace e disposta a dedicare un'incredibile quantità di tempo e di energia a questa organizzazione. Alcuni anni fa un certo malcontento contestò questo ruolo, ma la sfida fu facilmente respinta, poiché ogni membro razionale era perfettamente consapevole che lei era assolutamente vitale al successo dell'organizzazione.

Non solo non c'è nulla di sbagliato in questa situazione, ma sia benedetto il gruppo nel quale una persona simile esiste e si fa avanti! È assolutamente giusta la crescita del potere, in organizzazioni volontarie o di mercato, del più capace ed efficiente, in una "aristocrazia naturale", in termini Jeffersoniani. Il voto democratico, al suo meglio quando gli azionisti di una corporazione votano il dividendo della loro quota di proprietà delle attività societarie, è solo in seconda battuta utile quale metodo di rimozione degli aristocratici naturali o "monarchi" guastati o, in termini Aristotelici, che sono deteriorati da "monarchi" a "tiranni". Il voto democratico, perciò, anche al suo meglio è scarsamente un bene primario, men che meno un bene di per sé, tale da essere glorificato o perfino deificato.

Durante la metà degli anni '60, la Nuova Sinistra, prima di scivolare verso lo Stalinismo e una violenza bizzarra, stava cercando di mettere in atto una nuova teoria politica: la democrazia partecipativa. La democrazia partecipativa suonava libertaria, poiché l'idea era che la regola della maggioranza, anche in un'organizzazione privata e volontaria, fosse "coercitiva", e perciò tutte le decisioni di questa organizzazione dovevano essere separate dal potere oligarchico. Ogni membro avrebbe partecipato egualmente, e per di più, ogni membro avrebbe dovuto dare il proprio consenso ad ogni decisione. In un certo senso, la Regola dell'Unanimità prefigura e pareggia la Regola dell'Unanimità di James Buchanan e "l'economia del benessere" paretiana.

Qui ci fu un esperimento sociologico affascinante. Non solo, come ci si potrebbe aspettare, si giunse a poche decisioni di qualsiasi genere, ma le "riunioni del consiglio" si estesero all'infinito, così che tali riunioni si espansero fino a diventare vita a sé – una sorta di situazione No Exit Sartriana. Quando un mio amico lasciò la riunione ogni giorno alle 17 in punto per andare a casa, fu accusato di abbandonare la riunione e perciò di "tradire il collettivo" e la scuola, cercando di vivere una sorta di vita privata al di fuori della riunione. Forse è questo ciò che hanno in mente i teorici politici di sinistra odierni che esaltano la "vita pubblica" e la "virtù civica": abbandonare le vite private per conto di una virtuosa e perenne riunione collettiva della "comunità".

Non dovrebbe sorprendere se la Free University of New York non durò molto a lungo. Deteriorò rapidamente da un abito scolastico all'"insegnamento" dell'astrologia della Nuova Sinistra, tarocchi, canalizzazione dell'energia, euritmia e quant'altro, mentre gli studiosi fuggirono prima che entrasse in azione una sorta di legge di Gresham sociologica. (Come per la coppia fondante, la donna finita in prigione per aver cercato di far saltare una banca; mentre l'uomo, con gli occhi sempre più vitrei, in una sorta di gioco di prestigio sociologico s'era fissato che la sola occupazione morale per un sociologo rivoluzionario fosse quella del riparatore di radio).

La teoria educativa della Nuova Sinistra, in quel periodo, permeava anche i college molto più ortodossi in tutto il paese. In quei giorni, la dottrina non era tanto che l'insegnamento dovesse essere "politicamente corretto", ma che il normale rapporto insegnante-studente fosse il male poiché intrinsecamente non uguale e gerarchico. Poiché si presumeva che l'insegnante ne sapesse più dello studente, ne conseguiva che l'unica forma di educazione veramente egualitaria e "democratica", il modo per mettere insegnante e studente su uno stesso livello, era quella di rottamare il contenuto del corso e sedersi tutti insieme a discutere i "sentimenti" dello studente. Non solo tutti i sentimenti sono in qualche modo uguali, almeno nel senso che i sentimenti di una persona non possono essere considerati "superiori" ad altri, ma quei sentimenti sono presumibilmente le uniche materie "rilevanti" per gli studenti. Un problema che sollevò questa dottrina, ovviamente, è perché gli studenti, o più correttamente i loro genitori a lungo sofferenti, dovevano pagare facoltà qualificate nell'insegnamento di economia, sociologia, o qualunque altra materia, ma non quelle in psicoterapia dove ci si riuniva a chiacchierare dei sentimenti degli studenti?



Istituzionalizzazione dell'invidia

Come ho elaborato altrove, l'impulso egualitario, una volta assicurata la legittimazione, non può essere placato. Se le entrate monetarie o reali diventano equalizzate, o perfino se il potere decisionale fosse equalizzato, altre differenze tra persone sarebbero amplificate e risulterebbero irritanti per l'egualitarista: diseguaglianza in aspetto, intelligenza, e così via.[1] Un punto intrigante, tuttavia: ci sono alcune diseguaglianze che non sembrano mai indignare gli egualitaristi, vale a dire le ineguaglianze di entrate tra coloro che forniscono direttamente servizi ai consumatori, nello specifico atleti, attori e intrattenitori televisivi, artisti, scrittori, drammaturghi, musicisti rock. Forse questa è la ragione del potere persuasivo del famoso esempio "Wilt Chamberlain" di Robert Nozick in difesa dei redditi determinati dal mercato. Ci sono due possibili spiegazioni:
  1. che i valori di questi consumatori siano portati avanti dagli egualitaristi stessi, dunque considerati legittimi;
  2. che, con l'eccezione dell'atletica, questi sono campi riconosciuti come dominati da forme di intrattenimento e arte che non richiedono un vero talento.

Le differenze di reddito, perciò, sono equivalenti a vincere alla lotteria, o i vincitori nel gioco d'azzardo sono considerati universalmente come "fortunati", con nessuna invidia o attributi superiori da poter affibbiare loro.[2]

Il sociologo tedesco Helmut Schoeck ha sottolineato che l'egualitarismo moderno è essenzialmente l'istituzionalizzazione dell'invidia. In contrasto con società di successo o funzionali, dove l'invidia è quasi considerata un'emozione di cui vergognarsi, l'egualitarismo allestisce un'attitudine pervasiva secondo la quale l'eccitazione dell'invidia attraverso la manifestazione di qualche forma di superiorità è considerata il male maggiore. Oppure, come dice Schoeck, "il valore più alto è evitare l'invidia."[3] Infatti, gli anarchici comunisti puntano esplicitamente ad eliminare la proprietà privata poiché credono che quella proprietà dia origine a ineguaglianza, e dunque ai sentimenti di invidia, e perciò "causa" crimini violenti contro coloro che detengono maggiori proprietà. Ma come fa notare Schoeck, l'egualitarismo economico non sarebbe sufficiente, cosa a cui farebbe seguito l'uniformità obbligatoria di aspetto, intelligenza ecc.[4]

Ma anche se tutte le ineguaglianze e differenze possibili tra gli individui potessero in qualche modo essere sradicate, aggiunge Helmut Schoeck, rimarrebbe comunque un elemento irriducibile: la mera esistenza della privacy individuale. Per come la mette Schoeck, "se un uomo fa veramente uso del proprio diritto di essere da solo, sarà stimolata la noia, l'invidia, e la sfiducia dei suoi concittadini [...]. Chiunque si auto-escluda, che levi le tende e trascorra un periodo di tempo al di fuori del raggio di osservazione, è visto come un potenziale eretico, uno snob, un cospiratore."[5] Dopo alcuni commenti sul "peccato di privacy" nella cultura Americana, in particolar modo nella diffusissima politica delle porte aperte tra accademici, Schoeck si rivolge al kibbutz Israeliano e al suo fin troppo riverito filosofo, Martin Buber. Buber sostiene che per costituire una "comunità reale," i membri assolutamente uguali del kibbutz devono "avere reciproco accesso gli uni verso gli altri ed essere pronti gli uni per gli altri." Schoeck così interpreta Buber: "una comunità di eguali, dove nessuno debba invidiare nessun altro, non è garantita dalla mera assenza di possesso, ma richiede un possesso reciproco, in termini puramente umani [...]. Chiunque deve avere il tempo per tutti gli altri, e chiunque accumuli il proprio tempo, le proprie ore di svago, e la propria privacy, si auto-esclude."[6]



Il nuovo egualitarismo di gruppo

Fin qui abbiamo descritto ciò che potremmo chiamare egualitarismo "classico", o Vecchio egualitarismo, il quale si prefigge di rendere tutti gli individui in qualche modo uguali, generalmente in reddito e patrimonio. Ma negli anni recenti, siamo stati tutti soggetti ad un fiorente ed accelerante Nuovo Egualitarismo, il quale enfatizza non che ogni individuo dev'essere reso uguale, ma che il reddito, il prestigio, e lo status di una proliferazione infinita di "gruppi" siano resi uguali gli uni agli altri.

Ad un primo sguardo potrebbe sembrare che il nuovo egualitarismo di gruppo sia meno estremo o irrealistico del vecchio credo individuale. Perché se ogni individuo è in realtà totalmente uguale ad ogni altro per reddito, patrimonio, o status, la logica conseguenza è che ogni gruppo sottostante di tali individui sia altrettanto uguale. Spostare l'enfasi dall'egualitarismo individuale a quello di gruppo, implica l'accettazione di un grado inferiore di uguaglianza. Ma questa conclusione fraintende completamente il nocciolo dell'egualitarismo, vecchio o nuovo. Nessun egualitarista si aspetta veramente di essere in uno stato di assoluta uguaglianza, ma ciononostante inizia la propria analisi da questo punto di partenza.

Forse possiamo gettare una luce sulla vera natura della spinta egualitarista, e la relazione tra il Vecchio e il Nuovo movimento, non focalizzandoci, come si fa di solito, sui loro obbiettivi di uguaglianza, evidentemente assurdi e auto-contraddittori, ma sui mezzi richiesti per conseguire questi scopi: ossia la salita al potere di un apparato di Stato Procusteano, la nuova élite coercitiva. Chi sono le élite Procusteane? Ovvero, quali gruppi sono necessari per costituire tale élite? Per una strana coincidenza, la composizione di tali gruppi sembra corrispondere, quasi uno per uno, a quelle persone che si sono mostrate maggiormente entusiaste circa l'egualitarismo nel corso degli anni: intellettuali, accademici, opinionisti, giornalisti, scrittori, mezzi di comunicazione, lavoratori sociali, burocrati, consiglieri, psicologi, consulenti, e specialmente per il nuovo egualitarismo di gruppo sempre più crescente, un vero e proprio esercito di "terapisti" e allenatori alla sensibilità. In più, naturalmente, ideologi e ricercatori che sognano di scoprire nuovi gruppi che necessitano di egualitarizzazione.

Se questi gruppi, che potremmo definire "intellighenzia", sono la forza trainante della Vecchia e della Nuova personificazione dell'egualitarismo, come spera questa minoranza di convincere una maggioranza del pubblico a rivoltare un apparato di potere dispotico nelle sue mani? In primo luogo, gli intellettuali iniziano con un grande vantaggio, ben al di là della loro modestia numerica: sono dominanti entro la "classe di opinionisti" che cerca di dare forma all'opinione pubblica, e spesso ha successo in questa funzione. Come quasi sempre accade, i governanti di Stato hanno bisogno del supporto di una classe di opinionisti che generi il consenso del pubblico. Nel Vecchio Egualitarismo, i futuri governanti cercano di portare dalla loro parte coloro che apparentemente sono i beneficiari del programma egualitario: i gruppi a basso reddito che diverrebbero i maggiori percettori del trasferimento, o dell'assorbimento della ricchezza (parte del trasferimento dal ricco, naturalmente, andrebbe nei forzieri delle stesse élite Procusteane, gli intermediari del trasferimento di ricchezza egualitaria). Per ciò che riguarda il ricco depredato, loro sarebbero indotti a supportare il sistema in quanto dovrebbero espiare la loro "colpa" di essere più ricchi dei loro concittadini impoveriti. L'infusione del senso di colpa è un percorso classico nella persuasione della ricca vittima a consegnare la propria ricchezza senza lottare.

Ogni successo nel Vecchio Programma Egualitario portò all'espansione del numero, della ricchezza, e del potere della nuova élite Procusteana, risultando in una sempre minore definizione del "ricco" da poter depredare, e una sempre più alta definizione del "povero" da dover essere sussidiato. Questo processo è stato chiaramente all'opera negli Stati Uniti e nel mondo occidentale nel ventesimo secolo. Dall'essere confinati alla fascia di reddito più alta, per esempio, i pagatori dell'imposta sul reddito sono scesi ai livelli in cui c'è la più numerosa classe media. Allo stesso tempo, il "livello di povertà" da sussidiare e coccolare ha marciato costantemente verso l'alto, poiché la "linea di povertà" è stata continuamente rivista verso l'alto e i sussidiati sono aumentati dai molto poveri ai disoccupati fino ai più ricchi "lavoratori poveri".

Dal punto di vista degli egualitaristi, comunque, la debolezza del Vecchio Egualitarismo è che ha solo una categoria di beneficiari, "il povero", comunque lo si definisca, e un'altra categoria di depredati, "il ricco". (Che loro stessi siano notevoli beneficiari è sempre lasciato nascosto oltre il velo dell'altruismo e della presunta esperienza. Chiunque altro sollevasse il punto sarebbe considerato poco da gentiluomo o, peggio ancora, potrebbe finire nella tanto derisa "teoria della cospirazione della storia")[7]


[*] traduzione per Francesco Simoncelli's Freedonia a cura di Giuseppe Jordan Tagliabue: https://francescosimoncelli.blogspot.it/


=> Qui il link alla Prima Parte: https://francescosimoncelli.blogspot.it/2016/07/egualitarismo-ed-elite-parte-i.html

=> Qui il link alla Terza Parte: https://francescosimoncelli.blogspot.it/2016/07/egualitarismo-ed-elite-parte-iii.html


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Note

[1] Murray N. Rothbard, Freedom, Inequality, Primitivism, and the Division of Labor, 2nd ed. (1971; Auburn, Ala.: Ludwig von Mises Institute, 1991); e Rothbard, “Egalitarianism as a Revolt Against Nature,” in Egalitarianism as a Revolt Against Nature and Other Essays (Washington, D.C.: Libertarian Review Press, 1974), pp. 1–13.

[2] Helmut Schoeck fa riferimento “all'eguaglianza assoluta di opportunità che prevale in un gioco di possibilità che può essere vinto da pochi, come i giocatori sanno sin dall'inizio.” Schoeck sottolinea che “il vincitore di una lotteria non viene invidiato da tanti. Questo perché il metodo di selezione del vincitore è costituito da eguali opportunità per tutti. Una moglie non si lamenterà col marito per non aver comprato il giusto biglietto della lotteria... nessuno soffrirebbe di complessi d'inferiorità a causa di un fallimento ripetuto.” Helmut Schoeck, Envy: A Theory of Social Behavior (New York: Harcourt, Brace and World, 1970), p. 240.

[3] Ibid., p. 151.

[4] Per esempi su questa distopia egualitarista, si veda L. P. Hartley, Facial Justice (London: Humish Hamilton, 1960) e Kurt Vonnegut, Jr., “Harrison Bergeron” (1961), in Welcome to the Monkey House (New York: Dell, 1970), pp. 7–13.

[5] Schoeck, Envy, p. 295.

[6] Martin Buber, Paths in Utopia (Boston: Beacon Press, 1958), pp. 144ff.; Schoeck, Envy, pp. 298–99.

[7] Penso che ciò di cui si ha bisogno per percepire queste relazioni non sia una “teoria” pretenziosa, ma solo la volontà di stracciare il velo di offuscamento e vedere quello che sta accadendo realmente, e comprendere di conseguenza che l'imperatore è nudo.
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