giovedì 30 giugno 2016

L'impossibilità di un atterraggio di fortuna





di David Stockman


Mentre i robo-trader giocano coi punti sui grafici, val la pena considerare come andrà a finire questa storia. Dopo tutto, alla chiusura dei mercati di oggi l'S&P 500 era valutato al 24.3X degli utili per azione. Cioè, le valutazioni sono alle stelle, ma la storia finanziaria è caduta nelle profondità delle possibilità future.

Detto in modo diverso, ogni inizio anno gli analisti sanno che ciò che spinge gli LBO è il tasso di crescita previsto per fine anno. Diventate abbastanza fantasiosi circa le possibilità, e potrete ritrovarvi con un ottimo ritorno sugli investimenti, anche se gli anni successivi potrebbero sembrare un po' burrascosi.

A quanto pare poco importa se gli utili siano scesi per cinque trimestri consecutivi e a $86.53 per azione sono ora giù del 18.5% rispetto al loro picco del settembre 2014. S'ignora anche che questo trimestre sarà in negativo del 10% e che non vi è alcuna base razionale per un rimbalzo in tempi brevi.

Ma da qualche parte dietro ai robo-trader ci sono persone senza cervello che acquistano ciò che Wall Street sta scaricando. E che lo sappiano o meno, a 24.3X stanno scommettendo su un grande tasso di crescita di fine anno nonostante le turbolenze deflazionistiche che affliggono l'economia globale.

Ecco il punto, però. L'attuale ondata deflazionistica non è una deviazione una tantum che passerà a tempo debito. Per l'analogia di cui sopra, non abbiamo soltanto due anni di numeri pessimi con un robusto valore a fine anno.

Quello che abbiamo, invece, è semplicemente una serie di onde d'urto iniziali partite dalle banche centrali. In agguato, quindi, c'è un rischio insondabile, non una crescita straordinaria.

In una parola, il mercato azionario non vale nemmeno 15X dei suoi utili correnti, o a 1300. Alla fine i tipi senza cervello là fuori che si fanno buggerare dai continui dead cat bounce, ringrazieranno la loro buona stella se le loro perdite saranno solo del 40%.

Il vicolo cieco storico davanti a noi è drammaticamente evidente se guardiamo alla BOJ e alla follia della NIRP. E il Giappone sta seguendo solo quelle politiche raccomandate dai keynesiani e che vengono anche seguite dalla BCE e dalla FED.

L'ultimo posto sulla terra che può permettersi tassi d'interesse negativi, è proprio il Giappone. Si tratta di una colonia di vecchi in lizza per il fallimento fiscale. Tra un paio d'anni avrà un disperato bisogno di acquirenti per i suoi titoli di stato, i quali non rappresentano affatto la loro ricchezza in yen.

Eppure Kuroda-san ha appena ribadito al parlamento giapponese che può andare più in profondità nella NIRP, se necessario, o comprare più titoli con il QEE — anche se questo coinvolgerebbe $50 miliardi l'anno di ETF a causa della scarsità di titoli di stato giapponesi.

E "scarso" non è certo un termine adeguato. La BOJ sta ora acquistando più del 100% delle nuove emissioni di debito fiscale del Giappone, e queste a loro volta ammontano a quasi il 50% della spesa corrente. Eppure dopo che i pazzi alla BOJ acquistano le loro quote mensili, rimangono solo pochi bond in circolazione.

Così adesso il decennale giapponese è trattato ad un tasso negativo di 13 punti base. È diventato così scarso che è emersa una comica caccia a rendimenti decenti in quel che resta del mercato dei titoli di stato giapponese. Vale a dire, gli investitori istituzionali giapponesi al fine di trovare rendimenti "positivi" si accalcano verso la fine della curva dei rendimenti, dove stanno raccogliendo obbligazioni a 40 anni ad un rendimento di soli 29 punti base.

Questo è semplicemente orrendo. Ecco come apparirà la colonia giapponese di vecchi tra 40 anni da oggi. Stiamo parlando di un 40% di riduzione delle dimensioni della popolazione in età lavorativa.

L'attuale popolazione in età lavorativa del Giappone (75 milioni) sta già barcollando sotto il peso delle imposte correnti e del costo della vita elevato. Ma quando raggiungerà 45 milioni entro il 2060, la matematica diventerà proibitiva.




In altre parole, il culto dei tassi d'interessi ultra-bassi e l'assioma keynesiano secondo cui la prosperità può essere sempre creata con più debito, sta letteralmente distruggendo la capacità del Giappone di adoperare una governance razionale. In realtà, ciò di cui ha bisogno il Giappone è esattamente l'opposto della NIRP — cioè, alti tassi d'interesse e forti ricompense per il differimento del consumo presente.

In preparazione della bomba ad orologeria rappresentata dalla demografia, ad esempio, i politici del Giappone dovrebbero ricercare a tutti i costi avanzi di bilancio. E potrebbero essere molto più inclini a farlo se avessero dovuto affrontare i cosiddetti bond vigilantes, non un branco di manager obbligazionari disperati a caccia di 29 miseri punti base di rendimento.

Allo stesso modo, le famiglie del Giappone dovrebbero essere attratte da una quantità maggiore di risparmio, ma è accaduto esattamente il contrario. Nel 2015 il famoso alto tasso di risparmio del Giappone, che era stato quasi del 20% nei primi anni '80, ha raggiunto lo zero.




Ad un certo punto il Giappone dovrà prendere in prestito da stranieri, ma non ci saranno acquirenti a 29 punti base per titoli quarantennali la cui garanzia è costituita da una casa di riposo che una volta era una nazione. In breve, il sistema finanziario del Giappone è sicuro che collasserà, azzerando migliaia di miliardi di titoli di stato giapponesi.

Sì, la BOJ potrebbe anche annullare le migliaia di miliardi di JGB che ha in pancia, quando la crisi diventerà così disperata da richiedere un Giubileo per i Debitori. Ma è proprio questo il punto — il caos finanziario incombente incarna un mondo in cui i tassi di crescita di fine anno non meritano un multiplo del 24.3X.

Infatti, quando il Giappone sarà il primo paese ad andare in default, nessuna obbligazione sovrana sul pianeta sarà investibile ai tassi ridicoli di oggi. Quindi le perdite incorporate nei mercati obbligazionari di tutto il mondo sono già nell'ordine delle decine di migliaia di miliardi.

Lo stato ridicolo in cui versa il mercato dei titoli di stato del Giappone è stato spiegato più dettagliatamente in un altro post, ma non vi è nulla di straordinario perché è ormai un fenomeno planetario.

Un altro vicolo cieco simile lo ritroviamo nella madre di tutti i debiti impagabili: lo Schema Rosso di Ponzi. Con poco meno di $30,000 miliardi di debito finanziario impagabile, le aziende cinesi stanno ora affrontando l'inesorabile deflazione del giorno dopo.

Vale a dire, stanno tentando di ripagare i loro banchieri rivalendosi sui loro fornitori. Come mostrato di seguito, nel sistema aziendale della Cina i pagamenti ora soffrono di una dilazione di 192 giorni. Ed è per questo che tutto il suo castello di carte rischia di crollare con un botto. Ad un certo punto i miliardi di crediti non pagati di cui è composta questa catena di S. Antonio, supereranno di gran lunga la capacità dei banchieri statali della Cina di contenerli e supereranno anche la crescente flotta di cellulari della polizia per mantenere in riga questo gigantesco schema di Ponzi.




Infatti questo aumento dei debiti ha due implicazioni spiacevoli. La prima è che il mito della capacità di Pechino di una governance economica onnisciente e infallibile, sarà fatto a pezzi. È stato tutto un fraintendimento — il fallimento della "crescita" spacciata dai propagandisti di Wall Street, farà capire loro che il doping monetario attraverso un sistema bancario controllato dallo stato finanzia solo una spesa pubblica incontrollata ed emissioni infinite di asset a reddito fisso; e non genera affatto una crescita efficiente o una ricchezza sostenibile.

Ma i suzerain rossi di Pechino stanno già dimostrando che quando l'espansione del credito finisce, non hanno idea di cosa fare. A questo proposito, ora sembra che nel primo trimestre il sistema bancario cinese abbia generato nuovo credito ad un tasso annuale di $4,000 miliardi, o quasi il 40% del PIL.

Inoltre il cosiddetto "settore siderurgico" cinese ha avuto nuova vita grazie ad una domanda artificiale per investimenti di capitale e infrastrutture. Di conseguenza, a marzo la produzione di acciaio della Cina ha raggiunto un massimo storico, provocando un aumento temporaneo dei prezzi, e le acciaierie chiuse hanno riaperto.

Tanti saluti al restringimento del credito promesso dalla banca centrale cinese e allo smantellamento dei 150 milioni di tonnellate di capacità annunciato dai burocrati di Pechino qualche mese fa. Sin da quando Deng ha scoperto la stampante monetaria nel seminterrato della PBOC, il partito comunista cinese ha fatto un patto con il diavolo finanziario. Ma ora è troppo tardi per fermare lo Schema Rosso di Ponzi, il che significa che è in programma un'altra implosione del debito.

E non sarà contenuta entro i confini del Regno di Mezzo. Come ha anche spiegato l'autore del pezzo, “Red Ponzi Imploding — How It Will Turn The EM Into A Wasteland”, Douglas Bulloch:

I massicci investimenti cinesi in infrastrutture hanno creato l'illusione temporanea di ricchezza, mentre i livelli del debito globale sono cresciuti senza sosta. La maledizione delle commodity ha poi indebolito il progresso economico reale in tutto il mondo, poiché le élite hanno inseguito eccedenze in diminuzione. Questo ha lasciato esposti i produttori; uno in particolare – il Venezuela – è rapidamente diventato una terra desolata. La Russia è stata lasciata in uno stato di declino industriale e demografico, e il Brasile ha confermato gli stereotipi sulla corruzione latinoamericana. Tutto perché gli ordini si stanno prosciugando e il denaro è finito. Sia il Brasile sia la Russia si trovano ad affrontare la possibilità di un crollo imminente. L'India, al contrario, è una promessa mai mantenuta, la quale gioca alla tartaruga e la lepre con la Cina.

L'unica vera storia nella parola BRICS è sempre stata la "C", e l'enorme boom degli investimenti che ha alimentato i prezzi delle commodity ha fatto letteralmente impazzire il mondo. C'erano soldi per i programmi sociali in Brasile, c'erano i soldi per il nuovo modello di esercito di Putin e c'erano i soldi per le Olimpiadi e la Coppa del Mondo in entrambi i paesi. Poi c'erano i soldi per i palazzi di Londra, c'erano i soldi per i conti bancari panamensi, c'erano i soldi per le piccole guerre e alcuni avanzi per le presunte istituzioni di un "nuovo ordine mondiale".

Ora il dilemma della politica cinese è di tutti. Dopo aver trascorso 15 anni a succhiare i consumi e gli investimenti da tutto il mondo, la Cina ora ha una capacità produttiva che non può assolutamente sostenere, e si affaccia su un mondo riluttante a compensare le carenze della domanda cinese. Quindi sta accumulando debiti che avrà difficoltà a pagare ed investitori che si aspettano un ritorno che non riceveranno.

Solo il permabull più sfegatato potrebbe sostenere che l'economia statunitense è disaccoppiata dalla Cina e dai mercati emergenti. Ma per fugare ogni dubbio, basta considerare le sue implicazioni nell'ennesimo trimestre di utili in calo.

Vale a dire, le vendite di Coca-Cola (KO) per il primo trimestre sono scese del 4% rispetto all'anno precedente ed è il dodicesimo calo delle vendite negli ultimi 13 trimestri. Allo stesso modo, l'utile netto è sceso di oltre il 5%.

Ma KO non è trattata al 27X degli utili perché gli scommettitori pensano che i baby-boomer americani stanno per essere improvvisamente rapiti un rinnovato desiderio di Coca-Cola. Gli attuali livelli da capogiro presuppongono che gli abitanti della Cina e dei mercati emergenti, andranno in fissa con tale bevanda frizzante.

Inutile dire che il grande boom del credito in Cina/mercati emergenti degli ultimi 20 anni si sta trasformando in un crollo deflazionistico e drenerà la "frizzantezza" dal prezzo delle azioni Coca-Cola. Nel corso degli ultimi quattro anni, le vendite di Coca-Cola e il suo utile netto sono costantemente diminuiti. Eppure il suo PE è lievitato dal 17X al 27X. Cioè, andando a ritroso ha generato $50 miliardi di capitalizzazione di mercato.




Come abbiamo detto, fate attenzione alla crescita di fine anno. I segni premonitori sono ovunque e ciò che sta dall'altra parte non è un mondo di valutazioni al 24.3X.

Saluti,


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


mercoledì 29 giugno 2016

La prima vittima del Brexit: l'Italia prepara €40 miliardi per salvare le banche





da Zerohedge


Il mercato a malapena ha avuto il tempo di digerire il Brexit della scorsa settimana, che già la nazione europea più inguaiata dal punto di vista finanziario, l'Italia, sta usando il Brexit come pretesto per implementare un piano di salvataggio da €40 miliardi per le sue banche insolventi.

Come ha riferito in precedenza il WSJ, il governo italiano sta prendendo in considerazione un aumento di capitale per il sistema bancario del Paese, dopo che venerdì scorso gli istituti di credito italiani sono stati colpiti da un selloff tagliente dei titoli bancari, innescato dal voto in Gran Bretagna. Ovviamente il Brexit non ha nulla a che fare con tutto ciò: come tutti sanno ormai, le banche italiane sono gravate da €360 miliardi (e in aumento) di sofferenze (circa il 18% dei bilanci totali delle banche italiane), scarsa redditività a causa dei bassi tassi d'interesse, riserve di capitale sottili e costi alti. Sono state proprio queste preoccupazioni che hanno dato i natali ad Atlante, una sorta di "bad bank" che avrebbe dovuto far fronte a tali preoccupazioni. Poi però è diventato dolorosamente ovvio che i suoi fondi da €4.25 miliardi erano del tutto inadeguati per lenire anche la più piccola possibilità di fallimento delle banche italiane.

Secondo Ambrose Evans-Pritchard, il paese è la prima vittima del contagio del Brexit e ciò rappresenta un promemoria che i destini economici della Gran Bretagna e del resto dell'Europa sono saldamente intrecciati. Morgan Stanley ha avvertito in un nuovo documento che il PIL della zona Euro si contrarrebbe quasi quanto il PIL britannico in uno "scenario di stress elevato". "Quando la Gran Bretagna starnutisce, l'Italia si prende il raffreddore. È l'anello più debole della catena europea", ha detto Lorenzo Codogno, ex-direttore generale del Tesoro italiano e ora impiegato presso Advisors Macro LC.

Così, per non lasciare che una crisi vada sprecata, l'Italia ha deciso di utilizzare il referendum britannico come capro espiatorio e fornire quasi dieci volte tanto in nuovo capitale affinché le banche italiano lo usino (e ne abusino) come lo riterranno più opportuno. Inoltre il Telegraph ci informa che una task force di governo sta monitorando gli eventi ora per ora, impegnandosi in tutte le misure necessarie per garantire la stabilità delle banche. "L'Italia farà tutto il necessario per rassicurare la gente", ha detto il premier Matteo Renzi. "Questo è il momento della verità che tutti stavamo aspettando da tempo. Solamente non sapevamo che sarebbe stato il Brexit che avrebbe messo in moto gli eventi", ha detto un importante banchiere italiano.

Secondo il WSJ, il presidente della Commissione Finanze della Camera, Maurizio Bernardo, ha confermato che il governo sta studiando opzioni per sostenere il settore bancario, tra cui un aumento di capitale, e ha detto che verso la fine di questa settimana potrebbe essere approvato un decreto legge "con misure che vanno in questa direzione". Finora non è stata presa alcuna decisione, in quanto il governo sta monitorando la reazione dei mercati dopo la flessione di venerdì.

Ancora non è ben chiaro come tale intervento potrà essere attuato. Inoltre non è chiaro come tale ricapitalizzazione bancaria con fondi pubblici si concilierebbe con le normative vigenti dell'UE e della BCE, le quali vietano i salvataggi statali di banche insolventi, anche se l'Europa ha una lunga storia nel trovare enormi lacune a questo particolare divieto. Ultimo, ma non meno importante, non è chiaro come le parti interessate, azionisti, obbligazionisti e depositanti non assicurati, verrebbero intaccate sotto un tale piano di salvataggio.

I funzionari statali italiani stanno studiando una ricapitalizzazione delle banche diretta dallo stato, finanziata da un prestito obbligazionario speciale. Si vuole anche una moratoria per le regole riguardanti il "bail-in" e per le cosiddette svalutazioni degli obbligazionisti, ma questi passi sono impossibili ai sensi delle leggi comunitarie. Renzi ha sollevato l'argomento con urgenza in un incontro con il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente francese Francois Hollande, in un vertice a Berlino lunedì scorso. "C'è bisogno di una sospensione delle regole riguardanti il bail-in e le norme sugli aiuti di stato, altrimenti non vedo come possiamo andare avanti", ha detto Codogno.

La nuova riforma riguardante il bail-in ha portato i nodi al pettine, cogliendo alla sprovvista le autorità dell'UE. Era destinata a proteggere i contribuenti facendo in modo che i creditori subissero gravi perdite se una banca fosse finita nei guai, ma è stata mal progettata e ha portato ad una fuga dalle azioni delle banche. La Banca d'Italia ha chiesto una revisione completa delle norme riguardanti il bail-in.

Il WSJ aggiunge che il governo potrebbe ricorrere ad un'eccezione a questa regola date le condizioni di mercato eccezionali. "Credo che le misure potrebbero comprendere un mix di fondi pubblici e privati", ha dichiarato Bernardo.

Nel frattempo l'Italia ha scelto un grande catalizzatore a cui dare la colpa per la crisi che ha travolto il suo sistema bancario, il quale è risultato nei guai per gran parte dell'ultimo decennio. Le scosse di assestamento del voto britannico hanno continuato a far tremare i mercati finanziari, abbattendo il prezzo delle azioni europee, con i titoli bancari in netto declino.

Lunedì scorso le azioni della Banca Monte dei Paschi di Siena sono diminuite del 12.2%, mentre quelle d'Intesa Sanpaolo sono scese del 12.5%. Il FTSE Mib ha perso il 12.5% venerdì, e i titoli bancari sono stati i più colpiti.

L'ennesimo piano di salvataggio sarebbe una manna per le banche, le quali stanno lottando per ridurre le loro esposizioni ai prestiti in sofferenza. Come riportato in precedenza, gli investitori si sono dimostrati riluttanti a pagare i prezzi a cui le banche chiedevano di vendere i loro prestiti in sofferenza, il che significa che le banche italiane sono bloccate: non possono apporre un mark to market ai loro prestiti in sofferenza senza intaccare severamente la loro base di capitale, e non ci sono acquirenti ai prezzi correnti.

Come ha fatto l'Italia ad arrivare ai sopraccitati €40 miliardi? Proprio come nel caso dei calcoli di Neil Kashkari riguardanti il TARP, dove stimava che le banche statunitensi necessitassero di $700 miliardi o il 5% dei $14,000 miliardi di mutui residenziali e commerciali, l'Italia sta usando una regola empirica simile a quella di Neil Kashkari. I consulenti finanziari hanno calcolato che per portare circa €200 miliardi di prestiti in sofferenza vicino al loro valore reale di mercato, il sistema bancario avrebbe bisogno di una svalutazione collettiva dei crediti in sofferenza di circa €40 miliardi. Alcune stime collocano la svalutazione necessaria a circa €30 miliardi.

Ed ecco da dove escono i €40 miliardi.

Finora le banche si sono rifiutate di compiere un'azione così drastica, poiché credono che il prezzo di mercato dei prestiti in sofferenza dovrebbe essere più alto, in particolare considerando il valore di una parte delle garanzie collaterali in appoggio ai suddetti prestiti in sofferenza. Il problema è che nelle ultime settimane potenziali acquirenti (es. hedge fund) hanno tentennato di fronte a questi prezzi di vendita.

Per ora l'Italia finge di non voler accettare la realtà:

"Le banche italiane hanno la capacità di affrontare questa crisi da sole", ha detto Giovanni Sabatini, direttore generale dell'associazione bancaria italiana, ABI, commentando la possibilità di un sostegno del governo al settore.

Tuttavia, in seguito alla prossima esperienza di pre-morte del settore bancario italiano, la versione ufficiale cambierà rapidamente.

Ad oggi è praticamente impossibile per le banche italiane raccogliere capitali. Sono sotto una pressa, poiché la BCE richiede conformità con rigidi rapporti d'adeguatezza patrimoniale, in alcuni casi esigendo ingenti infusioni di capitale. La crisi bancaria è diventata politicamente esplosiva in Italia, soprattutto alla fine dell'anno scorso quando migliaia di piccoli risparmiatori sono stati spazzati via in quattro banche regionali. Sono stati classificati come obbligazionisti minori, anche se molti di loro erano solo risparmiatori comuni che non si rendevano conto di ciò che veniva fatto coi loro soldi.

Secondo Codogno, la BCE sta "involontariamente destabilizzando le banche, nel tentativo troppo zelante di rendere più sicure le banche europee." È quasi come se Mario Draghi avesse dato "luce verde" al Brexit, come una sorta di "crisi programmata" che sarebbe stata utilizzata per attivare il piano di salvataggio tortuoso delle banche italiane, le stesse banche di cui Draghi era regolatore durante il suo mandato nella Banca d'Italia, e le cui azioni hanno portato a numerose cause legali che mettono in discussione la legittimità della banca centrale sotto la presidenza di Draghi.

L'Italia è ormai paralizzata sotto la struttura vigente della zona Euro. Gli analisti dicono che ha un disperato bisogno di un salvataggio bancario, lungo le linee del "TARP" statunitense del 2008, il quale ha usato i fondi federali per assorbire asset tossici e stabilizzare le banche. Una misura simile è vietata dalla zona Euro. Il risultato probabile è che l'Italia di Renzi sarà "costretta" a prendere la situazione nelle proprie mani e mettere in atto un salvataggio unilaterale del sistema bancario italiano a dispetto dell'UE, a meno che non riceva concessioni da Bruxelles e le riceva presto. Quelli che lo conoscono dicono che non immolerà il Paese per il bene della purezza ideologica europea.

Di conseguenza il Brexit sarà solo il capro espiatorio usato da Renzi e dall'Italia per aggirare i divieti della zona Euro. E se non ci riuscirà, tutto quello che Renzi dovrà fare, sarà accennare ad un referendum riguardante l'uscita dell'Italia dall'Europa. Guardate poi come la Merkel si arrampicherà sugli specchi per consentire all'Italia di fare tutto ciò che vuole, proprio per evitare l'umiliazione di un potenziale "Italeave."


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


martedì 28 giugno 2016

La crescita dei posti di lavoro non equivale ad un aumento della ricchezza

In un mondo del lavoro in cui i robot e gli algoritmi stanno iniziando ad avere un ruolo sempre più predominante, il libero mercato eliminerà le professioni obsolete. Nella classe media ce ne sono tante, soprattutto a causa delle continue interferenze dello stato. Sono posti di lavoro insostenibili, i quali vengono finanziati con la refurtiva fiscale. Le finanze statali, però, hanno la loro scritta sul muro: passività non finanziate. Sebbene i funzionari possano continuare a scappare e farla franca, non possono nascondersi. Alla fine affronteranno il giorno del giudizio dal punto di vista fiscale. Parecchi lavori che stanno passando al vaglio del libero mercato, sono legati alle materie umanistiche. Coloro che le studiano possono anche avere un'intelligenza di poco sopra la media, ma sono abbastanza in sintonia con le forze di mercato per capire se davvero c'è domanda per il loro lavoro? In un mondo permeato dallo stato, questo calcolo economico è intorbidito. Quindi, non potendo calcolare il futuro prossimo, perseguono a sprecare tempo ed energia per raggiungere un posto di lavoro che più che altro è una chimera. E lo è stata sin dagli anni '60. Non riescono a vedere come dovrebbero re-indirizzare il loro percorso verso materie scientifiche, come la matematica o la fisica, ad esempio. Invece persistono a voler realizzare un percorso di studi che non li porterà da nessuna parte, soprattutto ora con un mercato saturo di domanda di professori e maestri a causa di un'offerta pompata all'inverosimile da uno stato scarsamente lungimirante. Coloro che hanno intrapreso un percorso umanistico sono rimasti abbagliati dal presunto posto fisso garantito dalle manipolazioni statali. Hanno abbandonato l'idea di analizzare le forze di mercato e hanno scelto la via più semplice. Pensavano davvero di battere il sistema. Pensavano davvero che ci fosse rimasto quel solo fatidico posto vacante e che loro l'avrebbero catturato. Invece scoprono di essere disoccupati o precari a vita. Al massimo diventare professori aggiunti: pessimo lavoro, pessima paga, poche sicurezze, niente speranza di un posto migliore. Gli individui imparano la lezione? No, se lo stato sovvenziona artificialmente un particolare settore. Ma il Grande Default cambierà questo paradigma e coloro non abbastanza lungimiranti da capire come un algoritmo sarà in grado di sostituire il proprio lavoro, rimarranno col proverbiale cerino in mano. Già adesso il settore scolastico è di fronte a tale cambiamento: homeschooling e video su internet. Il mondo del lavoro sta cambiando e con esso devono cambiare le previsioni degli imprenditori: fornire servizi che gli algoritmi ancora non possono fornire.
_________________________________________________________________________________


di Ryan McMaken


In risposta alle recenti affermazioni da parte dell'amministrazione Obama e altri, secondo cui sono stati creati "milioni di posti di lavoro", ho esaminato i dati per vedere se tali affermazioni fossero vere. Si scopre che la crescita dei posti di lavoro sin dalla recessione del 2008 è stata abbastanza debole, e difficilmente rappresenta qualcosa di cui vantarsi.

Tuttavia le nostre conclusioni tendono a basarsi sull'idea che la crescita dei posti di lavoro sia sinonimo di guadagni in ricchezza e prosperità economica.

È davvero così?

In un mercato non ostacolato, la risposta sarebbe no e per diversi motivi.

Prima di tutto, all'aumentare della produttività dei lavoratori, questi ultimi dovrebbero lavorare meno ore per conservare il loro tenore di vita.

In secondo luogo, al diminuire dei costi dei beni (grazie alla crescente produttività) si dovrebbe lavorare meno ore per conservare lo stesso tenore di vita.

Ciò si tradurrebbe in settimane di lavoro più brevi e giornate lavorative più corte, ma potrebbe anche manifestarsi a livello familiare dove le famiglie potrebbero vivere non più con due, ma con un solo reddito. In alternativa, le persone potrebbero andare in pensione prima, lasciando così la forza lavoro.

In altre parole, nel corso del tempo in un'economia ben funzionante sarà necessario meno lavoro umano per sostenere il proprio tenore di vita, a parità di condizioni. (Se i consumatori desiderano aumentare costantemente il loro tenore di vita, decideranno di lavorare di più sacrificando il tempo libero.)



Le tendenze storiche nelle ore di lavoro

Anche nella nostra economia ricca di ostacoli e tutt'altro che libera, possiamo ancora vedere questa tendenza di base. Il numero di ore di lavoro necessarie per conservare il tenore di vita goduto dai nostri nonni, per esempio, è inferiore rispetto al 1950.

Se i consumatori della classe media fossero soddisfatti con una residenza modesta in un sobborgo, una macchina, una sola linea telefonica, niente aria condizionata e niente accesso ad internet, molti di loro lavorerebbero molte meno di quanto sia necessario per conservare uno standard di vita in linea con la classe media.

Negli anni '50, per esempio, mia madre condivideva una camera con tre fratelli in una casa con due camere da letto nel centro di Los Angeles. Andava ad una scuola cattolica privata dove c'erano 50 studenti in una sola classe. Per la sua famiglia non esistevano vacanze o viaggi in Europa o in località balneari.

Eppure nessuno avrebbe descritto quello stile di vita come "impoverito" o "da classe inferiore." Era uno stile di vita da classe media, ma poteva essere mantenuto solo lavorando più di 40 ore ogni settimana presso l'azienda di famiglia, dove entrambi i genitori lavoravano regolarmente.

Questa esperienza non era affatto atipica.

Nonostante l'aumento del tenore di vita sin da allora, le ore di lavoro sono diminuite. Infatti secondo Robert Fogel in, The Fourth Great Awakening and the Future of Egalitarianism, from 1880 to 1995, il numero delle ore giornaliere di un capofamiglia trascorse sul lavoro sono scese da 8.5 ore a 4.7 ore. Nel frattempo il tempo libero è aumentato da 1.8 ore a 5.8 ore.

In uno studio di Thomas Juster e Frank Stafford, si è constatato che dal 1965 al 1981 negli Stati Uniti le ore lavorative settimanali sono scese da 51.6 ore a 44 ore per gli uomini. Per le donne, il lavoro è salito da 18.9 ore a 23.9 ore. Quest'ultimo dato era prevedibile, poiché in suddetto periodo le donne hanno cominciato ad entrare nel mercato del lavoro ad un ritmo maggiore rispetto a prima. Stiamo parlando di lavoro salariato comunque, e se includiamo i "lavori di casa" scopriamo che il "lavoro totale" per le donne durante suddetto periodo è passato da 60.9 ore a 54.4 ore. Le donne sono passate da lavori domestici a lavori di mercato in suddetto periodo, ma nel complesso, le ore di lavoro sono diminuite. Anche per gli uomini il lavoro totale è diminuito, da 63.1 ore a 57.8 ore. (In suddetto periodo per gli uomini sono aumentati i lavori di casa.)

In un altro studio condotto da Mary Coleman e John Pencavel, la media delle ore settimanali lavorative è scesa per gli uomini bianchi da 44.1 ore nel 1940 a 42.9 ore nel 1988. È scesa per le donne bianche da 40.6 ore a 35.5 ore rispetto al periodo sopracitato.

Lo standard di vita è aumentato in entrambi i suddetti periodi: la metratura delle unità abitative è aumentata, le automobili sono diventate più comuni, e servizi come i telefoni, le lavatrici, i computer e la climatizzazione sono diventati più comuni. Il lavoro stesso è diventato meno pericoloso in suddetti periodi di tempo.



L'invenzione della "pensione"

Anche se le ore di lavoro sono diminuite, la produttività è sufficientemente aumentata per consentire ad un gran numero di lavoratori di lasciare la forza lavoro in anticipo, ovvero, di "andare in pensione". Come spiegato da W. Andrew Achenbaum in The Wilson Quarterly, lavorare bene nei cosiddetti anni d'oro era pratica comune nel XIX secolo e anche prima. Gli agricoltori benestanti che possedevano terre, potevano permettersi di tagliare significativamente le ore di lavoro man mano che invecchiavano, ma generalmente gli operai comuni dovevano lavorare il più a lungo possibile o affrontare la miseria.

È stato solo durante la fine del XIX secolo, con l'accelerazione della produttività dei lavoratori, che questi ultimi si sono potuti ritirare dal mondo del lavoro ad un tasso crescente. C'è da dire però che molti dei loro lavori sono diventati obsoleti, che gli piacesse o meno. Scrive Achenbaum:

L'obsolescenza del lavoratore anziano è uno dei motivi per cui il 1890 segna l'inizio della tendenza a lungo termine verso il ritiro degli anziani dalla forza lavoro. In quell'anno circa i due terzi degli uomini d'età compresa tra i 65 e più anni, erano ancora nella forza lavoro — più o meno la stessa percentuale che troviamo oggi nei paesi in via di sviluppo, come il Brasile e il Messico. Nel 1920 quel numero era sceso al 56%, e nel 1940 era arrivato al 42%. Oggi è il 27%.

Ai tempi del salario di sussistenza, i lavoratori potevano lavorare per decenni senza molte opportunità per accumulare capitale e, quindi, "andare in pensione" era solo un'altra parola per descrivere la povertà. All'aumentare della produttività dei lavoratori e dell'accumulazione di capitale, le imprese private hanno potuto permettersi di creare una nuova cosa chiamata "fondi pensione".

L'avvento delle pensioni statali ha accelerato la tendenza, con grandi trasferimenti di ricchezza dai lavoratori presenti ai lavoratori passati. Il fatto che questi trasferimenti di ricchezza non abbiano ridotto i lavoratori presenti ai livelli di sussistenza, è dovuto anche agli aumenti di produttività del nuovo lavoro industrializzato e meccanizzato. In sostanza, i lavoratori avrebbero sostenuto sia sé stessi sia i pensionati presenti, pur vivendo aumenti percettibili nel tenore di vita. Una situazione del genere non sarebbe mai stata politicamente fattibile in un'epoca precedente, in cui i lavoratori si sarebbero probabilmente ribellati contro una nuova tassa (per mantenere i lavoratori in pensione) che li avrebbe impoveriti. Questo nuovo mondo in cui i lavoratori potevano sostenere le loro famiglie, oltre ad alcuni sconosciuti, è stato un trionfo dei mercati che ironicamente ha permesso agli stati di farla franca con tasse più alte.



Quindi la crescita dei posti di lavoro equivale ad un progresso economico?

Una volta misuravamo il progresso economico prendendo in considerazione la capacità delle famiglie di nutrirsi e dormire in un letto caldo. Lo facciamo ancora per quanto riguarda il mondo in via di sviluppo, in cui la "povertà estrema" è un problema reale.

Nel mondo industrializzato, tuttavia, la "povertà estrema" non esiste e il 78% dei "poveri" ha aria condizionata e la maggior parte possiede telefoni cellulari. Oggi le agenzie federali avrebbero considerato "sotto lo standard", lo stile di vita di cui godeva mia madre negli anni '40. All'epoca quelle condizioni erano considerate da classe media. Ma come ha osservato Ludwig von Mises: "Il lusso di oggi è la necessità di domani."

A quanto pare, se dovessimo misurare il numero di ore di lavoro necessarie per assicurarci prodotti alimentari e un tetto sulla testa, difficilmente necessiteremmo di un orario da lavoro a tempo pieno.

Questo è il motivo per cui nel corso del tempo, la quantità di lavoro svolto dagli esseri umani è diminuito. Ora sono le macchine a svolgere il lavoro che molte persone svolgevano una volta, e in modo più economico.

Questo è il motivo per cui gli Stati Uniti hanno una produzione più industriale oggi rispetto al passato, anche se un numero inferiore di persone è impiegato nel settore manifatturiero. Questo è il motivo per cui i nostri nonni lavoravano più ore rispetto ai nostri genitori, anche se gli standard di vita sono più alti oggi rispetto agli anni '60.

Così, nel lungo termine, non possiamo dire che più posti di lavoro equivalgono ad una maggiore prosperità. Infatti potremmo sostenere che un minor numero di posti di lavoro, un minor numero di ore di lavoro e un minor numero di lavoratori, rappresentano un aumento della prosperità. Il lavoro minorile, ad esempio, non è più essenziale per sostenere uno standard di vita decente a livello familiare. Tutti quei lavori sono ormai inutili.

Quindi come dovremmo rispondere quando i politici affermano d'aver "creato milioni di posti di lavoro"? Dovremmo considerarla una misura di miglioramento economico?

Nel breve periodo questa può essere una metrica utile. Dobbiamo chiederci se l'economia sia cambiata a tal punto negli ultimi dieci anni, da permettere a meno persone di lavorare. Ancora più importante, dobbiamo considerare se il prezzo di beni e servizi sia diminuito in modo significativo. Più persone stanno scegliendo volontariamente di adottare un basso tenore di vita per permettersi più tempo libero o per svolgere lavori extra-mercato?

Queste sono tutte domande che dovrebbero essere prese in considerazione quando si parla di posti di lavoro e miglioramenti economici. In realtà, l'unica misura che conta è il salario reale delle famiglie e la loro ricchezza, e ciò che può essere acquisito con suddetti. Tutto il resto è rumore che illustra i limiti dei dati economici aggregati.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


lunedì 27 giugno 2016

L'intruglio rialzista di Wall Street





di David Stockman


In un post recente, Jeff Snider uccide una volta per tutte le gambe perennemente rialziste dei venditori ambulanti di Wall Street. Appena 22 mesi fa (giugno 2014), Wall Street proiettava per il 2015 utili GAAP per azione di $144.60 per l'S&P 500.

Inutile dire che non c' hanno preso. In realtà erano troppo alti del 67%, ma la storia interessante è quella che descrive come ci siano arrivati a quel numero.

Dato che i risultati effettivi del 2013 e i documenti 10-K erano storia antica a giugno 2014, uno potrebbe pensare che questa gente stesse fumando oppio. Vale a dire, le suddette stime per il 2015 incarnavano un guadagno biennale del 45% rispetto al dato effettivo di $100.20 per azione per il 2013.

Entro il marzo 2015 le stime del consenso erano state abbassate a $111.34 per azione, in quanto le speranze del giugno precedente non avevano funzionato. Infatti i risultati GAAP per il 2014 erano arrivati a soli $102.31 per azione, vale a dire un piccolo guadagno di appena il 2.1% l'anno e un buco impossibile da colmare rispetto all'utile proiettato del 45%.

Peggio ancora, a dicembre 2014 la cifra segnalata non solo era fuori bersaglio; in realtà rappresentava un'inversione di rotta. La ripresa degli utili post-crisi aveva già raggiunto il picco a $106 per azione a settembre 2014 ed era scesa di quasi il 4%.

Ma a quanto pare non importava. La stima del consenso di $111.34 per il 2015 rappresentava un guadagno di quasi il 9% rispetto al 2014. Come al solito, faceva tutto parte del programma per la seconda metà dell'anno. L'utile GAAP del primo trimestre 2015 di $25.81 stava già serpeggiando e rappresentava un calo del 6% rispetto all'anno precedente.

Ma a Wall Street gli intrugli rialzisti vengono preparati tutto il giorno. Una volta arrivati alle stime di settembre del consenso finanziario, gli utili della prima metà dell'anno erano già giù del 17%. Ma il consenso era ottimista per l'ultimo trimestre. Gli utili per azione venivano quindi proiettati a $95.06, rappresentanti un calo annuale del 7%.

Ma l'ottimismo era troppo ottimista ed è andato in fumo. Alla fine dell'anno gli utili GAAP chiudevano in calo del 14% rispetto al livello del 2013, non in salita del 45%!




Ma questa non è nemmeno la metà della storia. In questa epoca di Finanza delle Bolle, Wall Street presume che la crescita degli utili sia qualcosa di identificabile. Così, nonostante il disastro totale sopra descritto per quanto riguarda le gambe perennemente rialziste per il 2015, le previsioni stanno sfondando di nuovo il tetto. Anche su base GAAP, le stime del consenso per fine anno sono di $111.50 e $126.50 rispettivamente per il 2016 e il 2017.

Il punto, però, non solo è che le gambe perennemente rialziste sono aumentate del 29% per l'anno in corso, quando i risultati/stime per il primo trimestre sono già giù del 10%, o del 46% per il 2017; il punto è che i venditori ambulanti di Wall Street sono così intossicati dalla vita nel casinò, da non capire che la festa è finita. Vale a dire, i margini di profitto sono arrivati ad un massimo di tutti i tempi, ma hanno raggiunto un picco e la spinta dell'ingegneria finanziaria è sicuramente finita.

I margini di profitto per l'S&P 500 hanno raggiunto un picco di quasi il 10% nel 2014 e sono già scesi di un quinto. E come dobbiamo ripetere ancora una volta, il ciclo economico non è stato bandito. Il grafico qui sotto fornisce tutte le informazioni necessarie per capire quello che accade ai margini di profitto quando la prossima recessione farà la sua inesorabile comparsa.




Allo stesso tempo, è una certezza che i riacquisti di azioni proprie scenderanno poiché i tassi d'interesse alla fine si normalizzeranno e prendere in prestito per acquistare azioni diventerà meno attraente. L'ingegneria finanziaria, di conseguenza, ha una data di scadenza.




Infatti il manifesto dell'ingegneria finanziaria è incarnato dai risultati di IBM; sono letteralmente un fiasco e sono un indicatore del dove i piani alti delle grandi aziende stanno portando le società americane, sotto gli auspici del sistema distruttivo della Finanza delle Bolle della FED.

Le vendite di IBM sono in calo per il sedicesimo trimestre consecutivo — questa volta del 4.5%. Nel frattempo i suoi profitti al netto delle tasse sono crollati del 67%, da $3 miliardi nel primo trimestre 2015 a solo $1 miliardo nel trimestre in corso.

Ma gli ultimi risultati di IBM sono stati salvati da un annichilimento totale grazie all'ennesimo sussulto dell'ingegneria finanziaria. Ha registrato un accantonamento fiscale negativo di $983 milioni, o negativo del 95%. A parte questa foglia di fico, IBM ha fatto registrare l'utile trimestrale al netto delle tasse più basso in due decenni!




Inutile dire che più di un decennio d'ingegneria finanziaria non ha nulla di speciale. IBM ha riversato nel casinò riacquisti d'azioni proprie e dividendi al fine di far levitare il prezzo delle sue azioni e inondare i suoi dirigenti con guadagni dalle stock option.

Ma anche la miope distruzione della propria base di capitale non funziona più. Dopo il disastro di ieri sera, le sue azioni sono scese del 6% rispetto al loro recente dead cat bounce e ora sono il 33% inferiori al picco del 2013 a $215 per azione.

Il suo CEO e il consiglio d'amministrazione non sono stati cacciati a pedate, perché hanno inondato di doni il casinò e gli intermediari finanziari che vi lavorano. Vale a dire, nel corso dell'ultimo decennio, IBM ha riacquistato $100 miliardi di azioni e ha pagato $33 miliardi in dividendi.

Ciò equivale al 100% del suo reddito netto cumulato — quindi non sorprende se le vendite e i profitti continuano a restringersi. Allo stesso tempo, IBM ha speso quasi $30 miliardi in acquisizioni e ha aumentato il debito totale da $10 miliardi a $31 miliardi.

In breve, IBM è stato un sogno fatto solo di ingegneria finanziaria. Ma, ahimè, l'ingegneria finanziaria non crea valore, e se praticata abbastanza a lungo, lo distrugge.

Ciò è evidente nel grafico qui sotto. Negli ultimi tre anni, le vendite di IBM sono diminuite del 21%, o più di $20 miliardi. Allo stesso modo, il suo utile netto è sceso del 23% e i suoi profitti lordi del 37%.

Proprio così. A marzo i suoi utili al lordo delle tasse erano di $14 miliardi rispetto ai $22.3 miliardi di tre anni fa.

Detto in modo diverso, la contrazione delle vendite e la costante erosione dei margini operativi, che sono scesi dal 20.6% al 17.4%, hanno provocato il caos nei profitti reali di IBM. L'unica ragione per cui il suo reddito netto non riflette pienamente il naufragio finanziario che gli ingegneri finanziari hanno scatenato su IBM, è la contorsione delle sue disposizioni fiscali.

Come mostrato nel terzo rettangolo, il suo tax rate effettivo era già ad un minimo del 24.0% a marzo 2013. Ora è al 7.3% su base annuale. Mentre continuerà a scendere, questi escamotage stanno raggiungendo i loro limiti.

Infatti non pagare le tasse non è vizio particolare. Anche così, però, non è possibile sfruttare una base di guadagni una tantum in termini di reddito che è stato rubacchiato al fisco.




Di tanto in tanto, zia Janet ha affermato che non esistono bolle nel mercato azionario e che lei è perplessa sul motivo per cui la produttività stia sbiadendo e la crescita continui a rallentare.

Forse avrebbe dovuto contemplare le conseguenze della massiccia intrusione della banca centrale nei mercati finanziari, la quale ha sostituito una determinazioen dei prezzi onesta e una sana disciplina finanziaria con l'ingegneria finanziaria.

Per quanto riguarda la prima cosa, il mercato oggi ha chiuso al 24X degli utili effettivi dell'S&P. Questo è un incidente visto al rallentatore, ed è uno totalmente attribuibile alla follia degli 87 mesi consecutivi di ZIRP e massiccio QE.

Per quanto riguarda la seconda cosa, IBM non è un'aberrazione unica, ma il manifesto dell'ingegneria finanziaria che inesorabilmente condurrà ad una liquidazione degli asset produttivi. Su una base aggiustata all'inflazione, la spesa di IBM per il settore della ricerca & sviluppo è calata del 20% negli ultimi quattro anni e le sue spese in conto capitale sono scese del 40%.




Questo intruglio di Wall Street che comprende gambe perennemente rialziste e ingegneria finanziaria, è veleno allo stato puro. Ma zia Janet non ne ha idea.

Saluti,


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


venerdì 24 giugno 2016

Viale del tramonto





di Alasdair Macleod


Vi è una crescente paura nei circoli finanziari e monetari: c'è qualcosa di profondamente sbagliato nell'economia globale. I funzionari pubblici e gli operatori di mercato sono confusi dai fallimenti della politica, e in privato sono invece decisamente pessimisti poiché incapaci di vedere come lo stato possa risolvere questo caos. Non è esagerato dire che aleggia nell'aria un crescente senso di catastrofe imminente.

La ragione è che i macroeconomisti di oggi hanno fallito nell'analisi di quel soggetto su cui professano di essere esperti: l'economia. Le loro raccomandazioni sono diventate l'opposto di ciò che la logica e la teoria economica dicono che sia la vera strada verso il progresso economico. Quest'ultimo non è più nemmeno sulla loro lista degli obiettivi. L'adattabilità degli esseri umani alle loro prescrizioni ha permesso al progresso d'andare avanti, nonostante tutti i tentativi di screditare i mercati, i centri di compensazione della divisione del lavoro.

La credenza infondata nella magia del denaro fiat è andata in frantumi sull'altare dell'esperienza. I macroeconomisti stanno scoprendo che il fallimento della pianificazione monetaria e fiscale, sta diventando un cul-de-sac che ha generato un'eredità di debito insostenibile. Quelli di noi a conoscenza di una crisi finanziaria incombente, stanno scoprendo che gli stati hanno solamente contorto le statistiche senza risolvere i problemi alla base.

Ci sono prove che l'intervento delle banche centrali abbia cominciato a distorcere irrevocabilmente i mercati sin dal 1981, quando Paul Volker alzò i tassi d'interesse per frenare la discesa del potere d'acquisto del dollaro. È stato a quel punto che cambiò il rapporto di libero mercato tra il livello dei prezzi e il costo del denaro, fatto dimostrato dal fallimento del paradosso di Gibson. Quello fu il punto in cui le banche centrali strapparono il controllo dei prezzi dal libero mercato. Ma spiegheremo tale fatto più in là in questo articolo.

Gli errori sono stati molteplici. In questo articolo spiegherò come e perché sono stati commessi. Questa conoscenza rappresenta il background necessario affinché si possa capire come si svilupperà la crisi finanziaria ed economica che un numero crescente di noi si aspetta, e quali misure dobbiamo adottare come individui per proteggerci.



Mercati contro stati

Gli errori di oggi hanno tutti un punto in comune: la convinzione che i mercati a volte falliscano e che le politiche monetarie e/o fiscali possano guidare i mercati verso lidi migliori. L'incarnazione moderna di questo mito è iniziata con J. M. Keynes, il quale da metà degli anni trenta credeva avesse abbastanza motivi per ribaltare la legge di Say, o la legge dei mercati. Le radici della crisi attuale vanno in profondità e, quindi, hanno origini precedenti al rialzo dei tassi d'interesse da parte di Volcker nel 1981.

La legge di Say afferma che noi produciamo per consumare. Pertanto la produzione è destinata strettamente al consumo, tra cui il consumo differito, anche noto come risparmio. E se qualcuno consuma senza produrre, qualcun altro deve produrre i mezzi. Il mezzo di scambio che traduce in consumi i salari e i profitti derivanti dalla produzione, è il denaro; quindi possiamo dire senza contraddizione che il denaro rappresenta il deposito temporaneo del profitto, o il lavoro della gente comune. Si tratta di una legge ferrea, che scatena guai per ogni tentativo di stimolare artificialmente i consumi.

Non ci può essere alcuno stimolo da parte dello stato, perché tutto dev'essere ripagato, in un modo o in un altro. Per semplicità, ignoreremo i sussidi governativi transfrontalieri, come ad esempio gli aiuti esteri. Quando uno stato paga benefici ad un gruppo d'individui, o prende in prestito i soldi da qualcun altro, oppure crea il denaro dal nulla. In quest'ultimo caso, i pagamenti delle prestazioni sono coperti dalla svalutazione del denaro esistente, il che equivale ad una tassa occulta sui soldi di tutti gli altri. Sostenere il contrario, come fanno coloro che negano la legge di Say, rappresenta un errore che si basa su un concetto di moto perpetuo finanziario.

La motivazione di Keynes era in parte guidata dalla sua fede nelle intenzioni oneste del governo democratico, e come si può ricavare dai suoi scritti, dalla sua avversione emotiva nei confronti dei risparmiatori, i cosiddetti rentier usurai che incamererebbero l'interesse senza sporcarsi le mani attraverso il lavoro onesto. Nella Teoria Generale, il suo primo lavoro importante dopo che era sicuro d'aver smontato la legge di Say, espresse la sua speranza per una graduale eutanasia del rentier e che il capitale sarebbe aumentato grazie alle azioni dello stato, cosicché non sarebbe mai più stato scarso. Il termine rentier è di per sé un insulto, cosa che suggerisce la presenza di un prestito usurario. Keynes auspicava che gli imprenditori, "così appassionati nei confronti del loro mestiere che il loro lavoro potrebbe essere ottenuto per molto meno rispetto al presente", potessero essere messi al servizio della comunità a condizioni ragionevoli di ricompensa.

La Teoria Generale è la prova che Keynes disprezzava i mercati, e non capiva i prezzi (si veda il Capitolo 21). La sua ignoranza riguardo questo elemento fondamentale dell'economia e tutte le altre mezze verità che seguono, ci rivela il vero scopo di questa propaganda: la giustificazione dell'intervento dello stato e la fine del libero mercato. È un libro scritto male e con contenuti scadenti, ma è diventato lo stesso la base dell'economia mainstream, anche per coloro che negano di essere keynesiani.

Su questa base sono stati costruiti strati su strati di ulteriori falsità. Quando un economista evoca una linea di condotta sulla base di queste favole, il critico onesto non sa proprio da dove cominciare a smontarle, perché il filo degli errori è lungo e contorto. Pochi sono disposti ad ascoltare una lunga critica di questi argomenti, quindi è molto più facile pensare che un rampollo di Oxford e Harvard sapesse di cosa stesse parlando.

Il linguaggio dell'economia moderna, quindi, ci porta a commettere errori che spesso non sappiamo d'essere errori. È giunto il momento d'affrontare la gravità di questi errori, soprattutto per coloro che desiderano comprendere una delle materie di studio più importanti al mondo, perché non farlo potrebbe essere molto costoso per quelli con un patrimonio da proteggere.

La radice del problema è un equivoco riguardo la natura stessa dell'economia e la sua relativa applicazione nell'analisi moderna.



L'errore analitico

L'uso improprio delle informazioni statistiche è un grande male, diventato sempre più diffuso nel corso degli anni grazie soprattutto allo sviluppo dei computer. I computer sono una tecnologia meravigliosa, ma hanno sostituito la teoria ragionata con statistiche inappropriate e le loro presunte relazioni matematiche.

La matematica è appropriata per le scienze fisiche, ma del tutto inadeguata per le scienze sociali, come l'economia. La matematica ha un ruolo importante nel mondo imprenditoriale: un ruolo essenziale nella contabilità per misurare il progresso di qualsiasi impresa. Ma è tutt'altra cosa tentare di bandire le incertezze insite nell'azione umana attraverso i mezzi matematici. Un uomo d'affari che non riesce a distinguere tra la matematica come strumento di contabilità e la sua inefficienza come strumento predittivo, non rimarrà in attività molto a lungo. Eppure non vi è alcuna limitazione dell'uso della matematica nel quadro molto incerto di un'economia nazionale.

Gli errori, seppur quasi invisibili, hanno un peso consistente.

Anche se l'inquadratura dell'attività economica è totale e corretta in un particolare momento nel passato (cosa che, nonostante tutto, non può mai accadere), tale inquadratura non può essere valida successivamente, perché l'attività economica continua la sua evoluzione. Nessuna economia rimane statica su base immutabile. Le informazioni raccolte dagli econometrici non solo non sono corrette successivamente, ma inducono in errore i pianificatori statali poiché credono d'avere le prove per gestire l'attività economica. L'abuso degli aggregati statistici, come il prodotto interno lordo, fa ricorso fondamentalmente ad identità contabili, le quali non misurano affatto il progresso.

Le statistiche sono continuamente modificate affinché pongano le politiche monetarie e fiscali sotto la miglior luce possibile. L'inflazione dei prezzi e i numeri della disoccupazione si sono evoluti al punto in cui non rispecchiano più la realtà, ma solo perché sono pubblicati da un dipartimento governativo, allora hanno credibilità. Il risultato è un'accozzaglia di dati statistici fine a sé stessa.

Vengono costantemente chiamate in causa le medie ponderate senza significato, come prova per sostenere l'intervento dello stato e la pianificazione dell'economia. Pertanto il "paniere di beni" dell'IPC e il "salario medio" non sono collegati alla realtà e nascondono il fatto che gli attori economici sono persone con diverse esigenze e desideri. Le medie ponderate non dovrebbero essere utilizzate come strumenti d'analisi su cui basare la politica monetaria e fiscale.

Fu George Canning, quasi due secoli fa, a dire che poteva provare qualsiasi cosa con le statistiche, tranne la verità. Le statistiche permettono all'analista lento di comprendonio d'evitare di dover applicare il pensiero originale. Ciò significa che non sente il bisogno di prendere in considerazione le motivazioni di fondo degli attori economici.

Un buon esempio di questo errore è rappresentato dal tentativo di Barsky e Summers, pubblicato sul Journal of Political Economy nel 1988, di spiegare il paradosso di Gibson. Il paradosso di Gibson è la correlazione osservata tra il livello dei prezzi e i costi di finanziamento, e la mancanza di correlazione tra i costi del finanziamento e il tasso d'inflazione. La relazione si concluse alla fine degli anni settanta nel Regno Unito, dove venne statisticamente osservata dal 1730 in poi. Barsky & Summers affermarono erroneamente che la causa fosse il gold standard, e quindi utilizzarono un modello matematico di loro ideazione per arrivare ad una conclusione parziale, che per loro stessa ammissione necessitava di ulteriori ricerche. In altre parole, il loro metodo li ha portati in un vicolo cieco.

Ad essere onesti, non sono gli unici economisti che non sono riusciti a spiegare il paradosso di Gibson. Venne chiamato così da Keynes e anch'egli non riuscì a risolverlo. Nemmeno Milton Friedman ci riuscì.

Mettendomi nei panni di un uomo d'affari in cerca di finanziamenti per la sua produzione, ho scoperto che il paradosso era facile da risolvere e spiegare. Il calcolo imprenditoriale dell'uomo d'affari è costituito dalla differenza tra i suoi costi di produzione e il prezzo di vendita del suo prodotto. Come fa a sapere il prezzo di vendita potenziale? Conosce il prezzo di vendita di elementi simili nel mercato attuale, ed è proprio questo che imposta il livello dell'interesse che è disposto a pagare per finanziare la sua produzione. Ecco perché i tassi d'interesse si sono correlati col livello dei prezzi, e non col tasso d'inflazione, durante i duecento anni nello studio originale di Alfred Gibson.

Purtroppo questo concetto non penetra la mente degli economisti monetaristi, i quali credono nel controllo delle attività economiche attraverso la manipolazione dei tassi d'interesse e l'espansione della quantità di moneta e del credito bancario. Affinché una politica monetaria sia valida, ci dev'essere una correlazione positiva tra l'inflazione dei prezzi ed i tassi d'interesse, cosa non vera come ha dimostrato il paradosso di Gibson. Vorrei anche postulare che Keynes non era caratterialmente incline a comprendere la soluzione del paradosso di Gibson, in quanto convinto che fossero i rentier oziosi a chiedere tassi d'interesse usurai e, quindi, ad impostarli, non il mutuatario con il suo calcolo di un ritorno sull'investimento.

Questo è il motivo per cui è di vitale importanza comprendere le motivazioni degli attori economici, evitando di nascondersi dietro il mondo sterile della matematica. Ma ci siamo talmente abituati ai modelli statistici, che anche alcuni seguaci della legge di Say hanno preferito abbandonarla. La confusione tra identità contabili, come il PIL, e il concetto indeterminato di crescita economica, è un esempio calzante. Per molto tempo abbiamo letto scritti di economisti che prendono statistiche di dubbia natura e le usano come base per un'equazione tra elementi disparati, creando così un rapporto che in realtà non esiste. Non si può affermare che le mele sono pere, ma si può affermare che sono frutti diversi. È possibile trasformare le mele in pere con un'equazione, se si introduce un fattore che da sempre incarna la differenza tra i due. Sono sciocchezze, naturalmente, ma questo è ciò che fanno spesso gli economisti.

Un primo esempio è la fallacia della velocità del denaro. L'ipotesi è che un cambiamento nella quantità di denaro cambierà il livello dei prezzi. Quindi ΔM ~ ∆P. Ma sin dai tempi di David Ricardo sappiamo che i prezzi P variano indipendentemente dalla quantità di moneta M, in particolare è il lasso di tempo che cambia. Pertanto l'equazione è stata modificata per includere un'altra variabile, soprannominata velocità di circolazione solo per darle un significato, ed è diventata la base dell'equazione di scambio di Irving Fisher:

M * V = P * Q

dove M è la quantità totale di denaro in circolazione, V è la velocità di circolazione, P è il livello dei prezzi, e Q è un indice delle spese finali. Presentata in questo modo, siamo portati a credere che la circolazione continua del denaro abbia un senso. Invece le cose non stanno così. Infatti, sarebbe come dire che essendo mele e pere entrambi dei frutti, allora sono uguali.

Nemmeno una volta l'economista monetarista si ferma a pensare che tutto ciò che un individuo guadagna dalla sua produzione, alla fine lo consumerà, che sia oggi o in qualche altro momento nel futuro. Ciò che conta non è la dimensione del saldo di cassa di un individuo, ma il profitto che trae dal suo lavoro. Questo è il rapporto della legge di Say, negata dai monetaristi.

L'ignoranza nei circoli accademici riguardo la teoria dei prezzi, che dopo tutto è il fondamento dell'economia, è sconcertante. È come se Carl Menger, che ha dimostrato in modo convincente la soggettività dei prezzi nel 1870, non fosse mai esistito. Questo nonostante il fatto che tutti noi scambiamo i frutti del nostro lavoro, sotto forma di denaro, per le cose che vogliamo, e questa è la nostra attività quotidiana più importante.

Ignoriamo anche il fatto che ci sono due variabili che caratterizzano qualsiasi prezzo: le modifiche che si sprigionano dai beni/servizi scambiati e dal denaro stesso. Siamo tutti consapevoli dei cambiamenti che si sprigionano dai beni e servizi. Ma pochi di noi sono consapevoli dei cambiamenti che si possono sprigionare dal denaro. Il ruolo del denaro, tradizionalmente una moneta sonante, è qualcosa che diamo per scontato. Ci permette di dar valore a prodotti diversi e far di conto con la nostra produzione. Agisce come valore di scambio oggettivo nelle transazioni. Tuttavia il potere d'acquisto del denaro non è mai costante, tanto più per quanto riguarda quello non-sonante. Quindi l'ipotesi secondo cui tutti i movimenti di prezzo provengono dai beni e servizi comprati e venduti, non è corretta.

Quando l'oro era liberamente scambiabile con la cartamoneta, i movimenti dei prezzi erano inferiori, anche per periodi di tempo prolungati. Ma nel paradigma di oggi col denaro fiat svalutabile, i movimenti possono essere considerevoli. Prendete in considerazione una situazione in cui le preferenze personali spingono a zero l'accaparramento della valuta A. Il prezzo di un bene, che non si muove se misurato in una valuta stabile B, si sposterà in modo che il prezzo misurato nella valuta A tenderà verso l'infinito. Ci rendiamo conto di questo fenomeno quando parliamo dei dollari dello Zimbabwe, o i bolivar del Venezuela, ma le nostre menti rifiutano d'ammettere che le stesse dinamiche operano sia per il dollaro sia per le altre valute principali utilizzate dagli occidentali.

I cambiamenti nel valore di una valuta possono non essere notati giorno per giorno, ma interferiscono con i confronti annuali, in quanto il potere d'acquisto dell'anno scorso differisce da quello di quest'anno. Né la legge riconosce alcuna variazione del potere d'acquisto di una moneta fiat, un fatto che le banche centrali sfruttano al massimo.

Le banche centrali stampano denaro e danno licenza alle banche commerciali di prestarlo sotto forma di credito. Ignorando la legge di Say, pensano di poter stimolare la domanda di credito espandendolo artificialmente. Per un certo periodo di tempo questo trucco inganna le persone, ma se prolungato esse iniziano a perdere fiducia nella moneta e modificano le loro preferenze, così il potere d'acquisto scende.

La velocità con cui diminuisce il potere d'acquisto di una valuta svalutata varia da prodotto a prodotto, in base a dove finisce l'incremento monetario iniziale. Sin dalla crisi finanziaria del 2007/08, è stato evidente che i prezzi degli asset finanziari hanno sperimentato una grossa dose d'inflazione monetaria, e i prezzi delle obbligazioni e di altri titoli sono aumentati di conseguenza. I prezzi dei beni e servizi ordinari sono aumentati molto meno. Negli ultimi anni l'IPC ufficiale ha costantemente registrato un'inflazione dei prezzi ben al di sotto dell'obiettivo della FED, ma i calcoli indipendenti, come l'Indice Chapwood, registrano un'inflazione dei prezzi di circa il 9%. Non possiamo prendere una qualsiasi di queste medie troppo sul serio per le ragioni citate in precedenza, ciononostante non possiamo non notare che l'aumento dei prezzi per Main Street sembra essere significativamente più alto rispetto a quello che ci dicono gli econometrici sponsorizzati dallo stato.

Il legame monetario tra i prezzi e la quantità di moneta è debole, e non tiene conto dei fattori intertemporali (es. dove finisce inizialmente l'espansione monetaria). Pochi sono i tentativi di comprendere le implicazioni insite nella variazione delle preferenze tra denaro e beni. E capire il perché è abbastanza facile: oltre alle prove empiriche, anche il ragionamento economico ci avverte che i macroeconomisti moderni, nel loro desiderio di farla finita con la legge dei mercati, ci hanno portato sull'orlo della rovina finanziaria. Il fatto sorprendente è che le economie siano sopravvissute a questa ingerenza persistente per così tanto tempo, ma questo si spiega con la straordinaria capacità dell'azione umana di adeguarsi all'intervento statale.



Le conseguenze

Ma la fine di questa storia sta prendendo forma. Le banche centrali hanno progressivamente rafforzato la loro presa sui mercati, sin da quando nel 1981 Paul Volcker prese il controllo dei mercati aumentando i tassi d'interesse. Fu in quel periodo che il paradosso di Gibson venne sconfessato. Il risultato è stato che l'attività economica alimentata dal debito, incoraggiata dal calo dei tassi d'interesse nominali, ha sostituito l'attività economica alimentata dai mercati, come dimostrato dal paradosso di Gibson negli ultimi 250 anni.

Ci sono limiti a quanto debito ci si può sobbarcare, e gli analisti finanziari stanno per riscoprire un vecchio adagio: i mercati vincono sempre alla fine. Il rischio di mercato dominante è rappresentato dai titoli di stato sopravvalutati, elementi da cui derivano tutte le altre valutazioni degli asset finanziari. Pertanto un notevole aumento dei rendimenti dei titoli di stato, rischia di creare una crisi sistemica del sistema bancario, il quale dipende da tali asset per le garanzie collaterali nei suoi prestiti. Le banche più vulnerabili si trovano nella zona Euro, dove i mercati obbligazionari sono i più sopravvalutati e le banche altamente gravate da sofferenze.

Quando i rendimenti dei titoli di stato aumenteranno al di sopra di un livello ancora sconosciuto, le banche centrali dovranno prendere una decisione: sostenere l'intero sistema finanziario a scapito delle loro valute, o invece proteggere queste ultime. Qualunque cosa sceglieranno, è improbabile che il sistema finanziario globale possa sopravvivere ancora a lungo.

Quando le cose diventano così delicate, qualsiasi cosa (es. le trattative sul debito della Grecia, le insolvenze bancarie italiane, le difficoltà nel mercato dell'oro fisico, o addirittura un brutto risultato statistico) può fungere da innesco. Il Brexit indebolirebbe certamente la coesione europea, con risultati potenzialmente destabilizzanti, ed è per questo che le figure pubbliche di spicco stanno implorando l'elettorato britannico di votare per rimanere. Finora le banche centrali hanno rimandato tutti questi problemi con successo, quindi ci vorrà probabilmente qualcos'altro per innescare il cosiddetto fine partita.

Un probabile innesco può essere l'effetto della svalutazione monetaria sulle finanze della gente comune. L'inflazione monetaria trasferisce la ricchezza dai risparmiatori ai debitori. Anche la spesa pubblica, finanziata attraverso tasse elevate, distrugge la ricchezza privata. L'inflazione monetaria riduce il potere d'acquisto dei salari della gente comune, un effetto che limita la loro capacità di consumare. I governi delle nazioni avanzate stanno, però, esaurendo la ricchezza dei loro cittadini.

Il trasferimento di ricchezza attraverso l'inflazione monetaria, è l'onere invisibile a carico della persona comune. Non c'è dubbio che abbia influenzato i numeri del PIL, i quali hanno finora mostrato una crescita deludente nella maggior parte delle nazioni avanzate. Tuttavia hanno tenuto a sufficienza per ingannare i feticisti della matematica, tanto che sono arrivati a dire che non c'è nessuna crisi, ma solo una crescita deludente. Val la pena ripeterlo: il PIL è solo un'identità contabile che è aumentata grazie all'inflazione monetaria. Ma le compensazioni mostrate da un deflatore dell'inflazione dei prezzi tendono ad essere mal interpretate, e dato che lo stato vuole sopprimere l'inflazione registrata, essa viene calcolata in modo inadeguato. Infatti se si accetta che l'inflazione dei prezzi è in realtà di gran lunga superiore a quella indicata dalle misure ufficiali, allora scopriamo che sin dalla crisi finanziaria le stime del PIL in termini reali si sono contratte nelle nazioni più avanzate.

La situazione in Giappone e nella zona Euro è peggiore rispetto a quella negli Stati Uniti, e la distruzione della ricchezza privata è stata più marcata. Il paradosso è che lo yen e l'euro sono temporaneamente forti, ma difficilmente potrà durare. Lo yen e l'euro sono forti perché la liquidità nel sistema bancario ombra viene drenata dagli acquisti di titoli di stato da parte delle banche centrali, situazione che scatena un aumento della domanda di denaro mentre le posizioni finanziate in queste valute vengono liquidate.

Sin dalla crisi finanziaria l'espansione monetaria ha portato ad una maggiore preferenza generale per accumulare denaro piuttosto che spenderlo. Questo si riflette in un aumento del livello dei depositi bancari e conti correnti, la controparte dell'espansione del credito bancario. Solo negli Stati Uniti depositi bancari e conti correnti sono aumentati da $2,330 miliardi a Luglio 2008, poco prima del crollo della Lehman, ai $10,170 miliardi di oggi, un incremento del 336% rispetto ad un aumento ufficiale del PIL solo del 22% nello stesso lasso di tempo.

Tale accumulo di denaro è stato un fenomeno circoscritto al settore finanziario. È quello che veniva chiamato hot money. Dopo aver pompato questi fondi, le banche centrali hanno cercato di imbottigliarli nei depositi bancari, in modo che nel complesso non ci fosse via di fuga dai tassi d'interesse negativi, e anche nella speranza di sostenere la stabilità finanziaria durante l'attuazione di ulteriori "misure straordinarie".

Questo ci porta ad un'altra questione, che nessuno sembra aver preso seriamente in considerazione: cosa succede quando i depositanti delle banche smettono d'aumentare la loro preferenza per il denaro rispetto ai beni, e cominciano invece a ridurla? L'unico risultato può essere un inaspettato e forte aumento dei prezzi di qualsiasi merce e asset acquistato con tale denaro, perché i venditori di valuta supereranno di gran lunga i compratori. In passato gli investitori hanno sempre trovato una via di fuga da questo problema, scambiando, ad esempio, pesos argentini per dollari. Questa volta nei guai c'è finito il dollaro stesso, con tutte le altre principali valute legate ad esso.

È una situazione che sta già portando ad un movimento finanziario nelle merci e nelle materie prime, movimento tra l'altro iniziato lo scorso dicembre. Alcuni prodotti chiave, in particolare il petrolio, sono aumentati sostanzialmente di prezzo. Finora i venditori di dollari sono stati i governi stranieri, in particolare la Cina, e i trader speculativi. Ma le condizioni avverse alle valute sembrano impostate per accelerare. L'inflazione core in America ha già superato il target della FED, ed è quasi certo che salirà più in alto; quindi a meno che la FED non inizi ad innalzare significativamente il tasso dei fondi federali, la discesa del potere d'acquisto del dollaro continuerà inesorabilmente. Il tutto si riduce ad una scelta duplice: salvare il sistema o la valuta.

I danni delle precedenti politiche monetarie inflitti alla ricchezza degli attori di mercato, così come l'incoraggiamento ad accumulare debito improduttivo, hanno eliminato qualsiasi spazio di manovra per le banche centrali. L'introduzione di un potenziale rialzo dei tassi, per quanto moderato, indebolirà i mercati obbligazionari sopravvalutati, cosa che a sua volta innescherà una nuova ondata di liquidazioni del debito da parte dei mutuatari più deboli. Si tratta di tensioni finanziarie a cui le banche nella zona Euro non riusciranno a sopravvivere. Sono così poco capitalizzate e sovra-esposte a titoli di stato europei scandalosamente costosi, che rappresentano un rischio sistemico allarmante anche in assenza di un aumento dei tassi d'interesse.

La differenza tra la crisi finanziaria incombente di oggi e l'ultima, è che questa seconda ha portato la popolazione a distanzarsi dall'incertezza degli impegni finanziari e a favorire la liquidità monetaria. Questa volta salariati e piccoli risparmiatori probabilmente reagiranno allo stesso modo, almeno inizialmente. Ma ora sono i risparmiatori e gli speculatori più ricchi che dominano il sistema. Hanno accumulato depositi sin dal 2008, e sono esposti al rischio bancario di controparte, un punto che capiranno rapidamente se le cose inizieranno ad andare fuori controllo. Pertanto la moneta fiat custodita nel sistema bancario è quell'asset che nei prossimi mesi società, investitori e ricchi, cercheranno molto probabilmente di scaricare. Le loro preferenze non solo andranno contro il dollaro, ma anche contro tutte le altre valute.

In breve, la crescente evidenza di un'inflazione dei prezzi e di una produzione stagnante, farà aumentare il rischio di un tracollo bancario e monetario globale. La migliore via di fuga è possedere qualcosa di diverso dai canonici asset finanziari e depositi in valuta fiat. Nessuna meraviglia se il prezzo dell'oro, che è il denaro più sonante di tutti, sembra essere entrato in un nuovo mercato toro.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


giovedì 23 giugno 2016

Brexit, ma c'è bisogno d'oro





di James Rickards


Oggi il Regno Unito potrebbe incappare nel più grande errore monetario sin dal 1925. Allora Churchill tornò alla parità aurea della sterlina a £4.25 l'oncia, essenzialmente il rapporto pre-guerra. Keynes avvertì Churchill che era necessario un prezzo molto più elevato per evitare la deflazione. Churchill ignorò i consigli di Keynes, e fece finire in depressione la Gran Bretagna.

Il nuovo errore non riguarda il prezzo dell'oro; riguarda la quantità. Se la Gran Bretagna lascia l'UE, girerà le spalle alle 10,788 tonnellate d'oro della zona Euro; il totale combinato di tutti i paesi membri della zona Euro più la BCE.

La Gran Bretagna dispone di 310 tonnellate d'oro, il che significa un rapporto minuscolo di 0.5% tra oro e PIL. Ciò a fronte di rapporti oro/PIL del 4.8% per la Russia, del 2.8% per la zona Euro, del 2% per gli Stati Uniti, e dell'1.6% per la Cina. (Il rapporto cinese è calcolato con stime attendibili di 4,000 tonnellate d'oro. Una minore quantità, 1,788 tonnellate, è ufficialmente segnalata dalla Cina per mascherare l'entità del suo programma d'acquisto d'oro.)

Quando arriverà il prossimo crollo del sistema monetario internazionale, i poteri in possesso di metallo giallo (Cina, Russia, Germania, Stati Uniti, Francia, Italia, e il FMI) riscriveranno le regole del gioco. Il loro obiettivo sarà quello di riformare il sistema come avvenne nel 1971 presso la Smithsonian Institution, nel 1944 a Bretton Woods, e nel 1922 a Genova. Un'uscita della Gran Bretagna dall'UE, senza un sufficiente ammontare d'oro, non le garantirà alcun posto al tavolo dei negoziati.

In una recente conversazione con l'ex-presidente della FED, Ben Bernanke, e l'ex-capo ad interim del FMI, John Lipsky, essi hanno usato la parola "incoerente" per descrivermi il sistema monetario internazionale. Hanno ragione. Oggi il sistema non ha un'ancora di bolina.

Il gold standard 1944-1973 è stato sostituito dopo un periodo di caos con un dollar standard 1981-2010. Il presidente Obama ha abbandonato questo dollar standard affinché la nazione perseguisse una politica commerciale votata all'esportazione.

Dal 2010 le guerre tra valute hanno afflitto il mondo. L'incoerenza ha portato ad una progressiva perdita di fiducia nella politica monetaria delle banche centrali. Ora il sistema sta traballando, e si sta avvicinando un nuovo crollo.

La Gran Bretagna ha due percorsi che può intraprendere, e uno di questi significa rovina. A quanto pare il percorso rovinoso sembra il più probabile.

Il primo percorso ragionevole è quello di rimanere nell'Unione Europea e adottare l'euro. Mettendo la politica monetaria nelle mani della BCE, la Gran Bretagna sarebbe coperta grazie alle 10,788 tonnellate d'oro della zona Euro.

Rimanere in Europa, e non adottare l'euro, rappresenterebbe una misura a metà. La Gran Bretagna avrebbe pur sempre il vantaggio potenziale di poter aderire all'euro, ma dati gli aspetti tecnici coinvolti, è improbabile che tale situazione possa salvare la sterlina in una crisi di fiducia. Forse il Tesoro britannico potrebbe rilasciare una dichiarazione d'intenti riguardo l'adesione all'euro in caso d'emergenza e la BCE potrebbe sedare un panico intorno alla sterlina.

Il secondo percorso ragionevole è quello di lasciare l'UE e comprare oro. Un programma trasparente d'acquisto d'oro al ritmo di venti tonnellate al mese (simile a quello attualmente condotto dalla Banca Centrale della Russia), spingerebbe il rapporto oro/PIL britannico ad un rispettabile 1.5% entro tre anni.

Questo programma d'acquisto è praticamente "gratuito". La Banca d'Inghilterra potrebbe semplicemente stampare denaro e comprare oro, come in ogni operazione di mercato aperto. Iniziare un programma del genere potrebbe rafforzare la fiducia nella sterlina man mano che verrà portato a pieno compimento.

Il percorso rovinoso è quello di lasciare l'Unione Europea, e basarsi sulla moneta fiat della banca centrale senza oro a sufficienza. Purtroppo questo sembra il percorso più probabile. Il Brexit è dovuto in parte alla scarsa capacità di negoziazione di David Cameron, al terrorismo in Europa e allo scandalo dei Panama Papers.

La Scozia sembra destinata a lasciare la Gran Bretagna se quest'ultima lascerà l'UE. La Scozia potrebbe aderire all'euro, e troverebbe conforto finanziario nell'oro della zona Euro. Edimburgo diventerebbe poi il centro della finanza anglofona. Questo rappresenterebbe un altro duro colpo alla sterlina.

Il Brexit senza oro porterà ad una crisi della sterlina peggiore della crisi del rublo russo nel 1998. Data la densità della finanza globale, potrebbe scoppiare una crisi mondiale di liquidità.

Probabilmente keynesiani e monetaristi avranno smesso di leggere ormai, borbottando: "Cos'ha a che fare l'oro con tutto questo?" Questa domanda merita una risposta.

Keynes si spaventerebbe se potesse vedere cos'è diventato il keynesismo oggi. Nel 1914 premette affinché il Regno Unito conservasse l'oro, nel 1925 consigliò Churchill di adottare un prezzo più elevato per l'oro, e nel 1944 propose una moneta basata su un paniere di materie prime incluso l'oro. Keynes era un pragmatico, e comprendeva meglio dei suoi colleghi dell'epoca come l'oro fosse di gran lunga migliore.

I monetaristi fraintendono molte cose, soprattutto la volatilità della velocità, un fenomeno socio-psicologico non influenzabile dalle banche centrali.

Keynesiani e monetaristi hanno poco da offrire alla politica economica, come testimonia l'output gap degli ultimi otto anni.

Infatti l'oro ha a che fare con il sistema monetario internazionale. Il mondo ha praticamente adottato un gold standard ombra.

Il bilancio dichiarato della Federal Reserve ha una leva spaventosa di 144 a 1. Ma questo rapporto scende a 13 a 1 quando si tiene conto dei certificati d'oro del Tesoro USA.

I programmi d'acquisto d'oro di Russia e Cina sono in corso da anni ormai. Servono a raggiungere diversi scopi geopolitici, compresa la copertura contro l'inflazione del dollaro. Le riserve auree costituiscono anche una base per un futuro sistema monetario basato sull'oro e non più sul dollaro: Diritti Speciali di Prelievo, o un ibrido. È importante sottolineare che l'oro è un asset liquido che non può essere violato, congelato o interdetto dagli Stati Uniti

Il nuovo gold standard è ormai in bella vista. Bisogna essere un laureato in economia per non vederlo. Quindi va bene il Brexit, ma c'è bisogno d'oro.

Saluti,


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


mercoledì 22 giugno 2016

Il Brexit e una nuova Lega anseatica

Domani la Gran Bretagna andrà al voto per decidere se rimanere nell'Unione Europea o meno. Se gli elettori voteranno per lasciare l'UE, allora questo esperimento del NWO finirà in grossi guai. Come sottolineato anche nel presente articolo, altri paesi domanderanno la stessa cosa. Inutile dire che l'establishment di Bruxelles odia quanto sta accadendo e quanto potrà accadere, perché non ha nessuna intenzione di onorare simili decisioni. Questo è stato vero sin dal referendum in Irlanda per entrare nell'Unione Europea. Ma quando le politiche dei tassi negativi della BCE produrranno la prossima recessione, una peggiore rispetto a quella scoppiata nel 2009-2010, allora questa gente perderà legittimità. Non riusciranno a tenere incollati tutti quei pezzi del mosaico che tenteranno di staccarsi. Soprattutto in virtù del fatto che stanno guadagnando trazione voci contrarie all'accentramento coatto europeo. Una di queste è senza dubbio quella di Nigel Farage. Se gli inglesi andranno al voto domani, è gran parte merito della sua compagna contro gli eurocrati. Come ha fatto a guadagnare trazione? Fondamentalmente grazie alla popolarità acquisita su Internet, e in particolar modo grazie ai suoi video su Youtube. Il decentramento informatico sta facendo cadere, pezzo dopo pezzo, burocrazia dopo burocrazia, il mostro statale affamato di centralità dei poteri. Se la Gran Bretagna lascia l'UE, sarà difficile per gli eurocrati indire un nuovo referendum. Il vecchio adagio che ha caratterizzato fino ad ora il loro modus operandi, "mai prendere no come risposta", sarà inapplicabile. Il decentramento tecnologico permette agli individui d'organizzarsi. Se invece la Gran Bretagna sceglierà di restare, sarà applicato un nuovo adagio: "Mai prendere un sì come risposta". Farage e i suoi estimatori condurranno questa battaglia di resistenza grazie al decentramento tecnologico e informatico, aiutati, inoltre, dall'inevitabile auto-distruzione della pianificazione monetaria centrale.
___________________________________________________________________________________


di Alasdair Macleod


David Cameron, il primo ministro della Gran Bretagna, ha negoziato i termini con gli altri stati membri dell'UE e ha indetto un referendum il 23 giugno sulla permanenza o meno del suo paese nell'Eurozona.

In questa prima fase della campagna, i termini non sono sufficienti per dare un chiaro vantaggio a favore di un voto, contribuendo ad una discesa della sterlina sul mercato dei cambi esteri. Tuttavia, se gli elettori votassero per lasciare l'Unione Europea, non sarà solo la sterlina che ne soffrirà, ma anche l'euro dovrà affrontare sfide considerevoli.

Si pensa che quanto più presto verrà organizzato il referendum, tanto più si limiterà la disaffezione nei confronti dell'UE. All'interno di questo lasso di tempo, la strategia è quella di sottolineare i pericoli del Brexit, evidenziare i vantaggi d'influenzare le politiche dell'UE dall'interno e sottolineare i vantaggi in fatto di sicurezza. Si tratta essenzialmente di una campagna debole e negativa progettata per spaventare gli elettori contro il cambiamento. Le campagne negative sono una strategia debole e tendono a tramontare attraverso la ripetizione.

C'è un elefante nella stanza che potrebbe anche ribaltare il risultato previsto: un rischio crescente d'instabilità finanziaria nella zona Euro. Mentre è probabile che prima di giugno non emergeranno grossi problemi, c'è una possibilità significativa che invece le cose andranno diversamente. Il sistema bancario della zona Euro vacilla tra l'insolvenza e la bancarotta, con le banche italiane, greche e portoghesi in terapia intensiva. I prezzi dei titoli di stato della zona Euro, talmente cari da avere rendimenti negativi, è sicuro che caleranno in modo significativo ad un certo punto, portando ad un'inevitabile crisi del debito nell'Eurozona.

Se a questo ci aggiungiamo il problema dei profughi, abbiamo gli ingredienti di un bust europeo fin troppo evidente. Inoltre il primo ministro della Repubblica Ceca, Bohuslav Sobotka, ha avvertito che se la Gran Bretagna decidesse di lasciare l'Unione Europea, la Repubblica Ceca potrebbe seguire l'esempio. Inoltre vi è la possibilità di un referendum simile nei Paesi Bassi. La disaffezione nei confronti di Bruxelles è molto diffusa, e non sarà solo un "ratto britannico" che abbandonerà la nave che affonda.

Finora queste tesi sono state definite solo chiacchiere allarmiste, ma il problema finanziario dell'UE sta già diventando esorbitante. George Osborne, alla riunione del G-20 a Shanghai, ha detto che "i colleghi ministri delle finanze e i capi delle banche centrali hanno concluso che una volontà inglese di lasciare l'UE rappresenterebbe uno dei maggiori pericoli economici di quest'anno". Inoltre ha fatto notare che "lo shock di una potenziale uscita del Regno Unito dall'Unione Europea sarebbe destabilizzante." Queste dichiarazioni sono un'ammissione che l'UE, piuttosto che il Regno Unito, è in pericolo e che l'uscita della Gran Bretagna sarebbe la classica goccia che fa traboccare il vaso. È anche un appello affinché la Gran Bretagna sacrifichi i propri interessi a favore del bene comune.

L'incubo default dell'UE non è più solo un parto della fantasia di catastrofisti e teorici della cospirazione. I suoi problemi sono ufficialmente spaventosi. Con i suoi problemi di debito intrattabili, la zona Euro e l'euro potrebbero essere le prime vittime del deterioramento delle condizioni economiche e finanziarie globali; e il rischio è abbastanza reale affinché l'elettorato della Gran Bretagna recepisca il messaggio. Quindi è giunto il momento che le autorità escogitino un piano B in caso di Brexit. Di recente ho discusso questa possibilità con un contatto stretto che ha familiarità con la macchina del governo, e abbiamo concluso che è quasi certa la presenza di una squadra a Downing Street a lavoro su un piano d'emergenza. Stiamo parlando di alti funzionari del Tesoro, del Ministero degli Esteri e del Ministero delle Finanze.

Lo scopo di questa squadra è quello di contattare i loro omologhi negli altri stati europei e porre rimedio ad eventuali attriti sollevati dal Brexit, in modo che se succedesse il peggio e il referendum andasse nella direzione da loro ritenuta avversa, la transizione verso l'indipendenza britannica sarà gestita con pochi contraccolpi. Oltre ai problemi per il Regno Unito, ci sono le conseguenze per i restanti membri dell'UE e per quegli interessi che influenzerebbero le loro risposte.

Riemergerebbe quasi certamente il divario tra gli stati del nord relativamente responsabili e quelli del sud dissoluti, con risposte politiche dei paesi del nord che differirebbero nettamente da quelle dei paesi del Mediterraneo, tra cui anche la Francia. È difficile immaginare che i PIIGS(F) se ne escano con un qualche input positivo; per tutti loro questo sarebbe un primo passo verso la rapida disintegrazione dell'Unione politica che fino ad ora hanno munto con successo. Il gruppo settentrionale è più interessante, ed è probabile che adotti un approccio costruttivo.

Nel periodo precedente alla crisi greca, c'è stata una significativa pressione politica all'interno della Germania affinché abbandonasse l'euro. Pertanto, se la Gran Bretagna sconvolgesse l'Europa con il Brexit, la Germania potrebbe anch'essa cogliere la palla al balzo. Oltre alla Germania possiamo aggiungerci i Paesi Bassi, la Finlandia e pare anche la Repubblica Ceca.

Il commento di Sobotka potrebbe essere un indizio. La Repubblica Ceca produce beni strumentali di altissima qualità, e molti tedeschi la ritengono il meglio nel campo dell'ingegneria. La sua esperienza nell'UE è stata tutt'altro che felice. Il suo governo ha dovuto abbandonare il progetto di aderire all'euro, a causa della forte opposizione dell'opinione pubblica. La sua politica di tenere le frontiere aperte, nel quadro dell'accordo di Schengen, ha esposto il paese ad ondate di rifugiati indesiderati da Siria, Iraq e Afghanistan. Le sanzioni UE contro la Russia hanno limitato il commercio con un mercato di maggior potenziale a lungo termine rispetto all'UE stessa. E, infine, la sua sicurezza energetica è stata minacciata, non dalla Russia, ma da Bruxelles.

La Repubblica Ceca è in una posizione simile alla Germania sulla questione degli immigrati e delle sanzioni alla Russia. La Germania ha sofferto per aver sacrificato la sua moneta, e attraverso l'euro ha dovuto finanziare gli stati spendaccioni. In certi ambienti ancora è vivo il desiderio d'abbandonare la zona Euro e formare una zona separata con una valuta forte, anche se attualmente i titoli dei giornali non ne parlano. Il dilemma della Germania è di natura politica: sta ancora espiando le colpe per le due guerre mondiali del secolo scorso, e non osa essere la responsabile della fine dell'esperimento europeo.

Tuttavia, se il Regno Unito votasse per abbandonare l'UE, la posizione della Germania cambierebbe in modo significativo. Potrebbe essere attratta dalla libertà di ri-emettere la propria valuta e stilare i propri accordi commerciali. Non v'è dubbio che la scissione da Italia, Spagna, Francia ed altri paesi significherà cancellare parte, o tutti, i loro debiti dovuti alla Germania. In alternativa, l'appartenenza alla zona Euro, e quindi all'UE, finirà per mandarla in bancarotta per la terza volta in cento anni.

Si tratta di una scelta difficile, ma il livello di paura è già alto e ciò è dimostrato dalle preoccupazioni del G-20; quindi i membri della squadra inglese atta a stilare il piano B, troveranno una base pronta per la discussione con i loro omologhi a Berlino. Al progredire del processo di pianificazione di una contingenza per il Brexit, la fragilità di tutta l'UE e della zona Euro diventerà sempre più evidente. In caso di Brexit, i pianificatori del piano d'emergenza sono d'accordo che questo evento segnerà l'inizio della fine dell'esperimento europeo e dell'euro. La relativa stabilità di Germania, Repubblica Ceca, Slovacchia, Austria, Paesi Bassi, Finlandia, Polonia e degli stati baltici sarebbe meglio garantita sotto nuove disposizioni, in linea con le realtà geopolitiche di oggi. La soluzione logica, presumendo che questi stati non considerino un'opzione percorribile affondare con la nave dell'euro, sarebbe quella di negoziare una nuova alleanza commerciale con il Regno Unito, una versione della Lega anseatica ma del XXI secolo, basata sul commercio piuttosto che sulla politica.

Questa soluzione interromperebbe anche le relazioni con la NATO, perché il libero scambio con la Russia e l'Asia diventerebbe un obiettivo primario. La Gran Bretagna ha già dimostrato che il commercio ha la priorità sulla partnership riguardo la difesa quando è diventata il primo membro della NATO a supportare l'Asian Infrastructure Investment Bank, un'istituzione i cui elementi motore sono la Cina e la Russia. Questo è stato un segnale importante, perché ha segnato una svolta nelle relazioni britanniche con la Russia, compromettendo i rapporti della Gran Bretagna con gli Stati Uniti. Quindi non solo la Gran Bretagna s'è posizionata per beneficiare dai futuri sviluppi in Asia, ma ha anche voltato le spalle ai trattati di difesa.

Pertanto se l'elettorato britannico voterà per un Brexit, il costo sarà quasi certamente la disintegrazione della stessa Unione Europea, e questo è qualcosa che il governo britannico non vuole. È difficile capire come riusciranno a sopravvivere le banche della zona Euro. Questo è il motivo per cui David Cameron sta lavorando sodo per evitare un Brexit, nonostante abbia mostrato in precedenza un certo sostegno per l'idea. Dopo tutto, ha impegnato il governo ad un referendum.

Anche gli eurocrati di Bruxelles sono consapevoli del pericolo. Stanno addirittura rimandando normative minori che in qualche modo possano indispettire gli elettori britannici, come ad esempio il limite al consumo di energia dei bollitori e dei tostapane (Daily Telegraph, 28 febbraio). E uno si chiede anche se il regolatore bancario della Germania non abbia lasciato cadere tre indagini nei confronti di Deutsche Bank, solo per non creare una potenziale pubblicità negativa durante la campagna referendaria. Ciò di cui hanno bisogno disperatamente Bruxelles e David Cameron, è qualcosa di positivo e credibile da dire affinché la Gran Bretagna rimanga nell'UE, ma è difficile trovare qualcosa di simile.

In conclusione, i ministri delle finanze del G-20 e i banchieri centrali hanno buone ragioni per essere preoccupati di un Brexit.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/