venerdì 30 maggio 2014

Contro la deflazione: Una prospettiva austriaca

Il periodo attuale è pingue di discussioni sulla deflazione e sull'inflazione. Di certo è l'argomento caldo del momento visto che si schierano, come da copione, i vari intellettuali di corte che spingono i pianificatori centrali a pigiare l'acceleratore: ovvero, fanno quello per cui sono pagati e per cui sono stati accreditati. La scuola austriaca in questo dibattito ha poco ascolto, l'opinione pubblica tende ad ascoltare saccenti professori che si guardano bene dal mordere la mano che li ha fatti arrivare dove sono: il sistema accademico sovvenzionato dallo stato. Le fallacie vengono reiterate e la retorica pianificatrice fa il suo scorso, continuando a dissanguare la classe media e quella porzione di popolazione che è più esposta ai cambiamenti di politica monetaria. Certo, può essere individualmente soddisfacente affermare "Ve l'avevamo detto", ma in caso di disastro finanziario non c'è tempo per queste cose. Ecco perché presento con orgoglio questo scritto di un "cittadino" di Freedonia. Credo che ormai lo conosciate tutti. In questo pezzo viene fugato ogni dubbio (che potevate ancora avere) per quanto riguarda il tema inflazione vs. deflazione. La chiara epistemologia della scuola austriaca permette ai suoi studiosi di riuscire a ragionare e creare simili opere. Per mio conto ho sempre cercato di mantenere una certa neutralità nei confronti della deflazione in un ambiente a pianificazione centrale, ritenendo implicitamente assorbito il concetto che in tale panorama gli effetti deflazionistici lasciano il tempo che trovano se non c'è un cambiamento totale di paradigma. Qui viene sottolineato forte e chiaro, ed è un bene perché spesso certe cose non dette azzoppano il pensiero che si vuole veicolare. Ma soprattutto ci ricorda come la deflazione in un ambiente a pianificazione centrale, presenti anch'essa una sorta di "effetto Cantillon", dove quelle entità che vengono tutelate artificialmente sono in grado di fare shopping a prezzi stracciati di quegli asset scoppiati durante il bust (come Blackstone ed altri hedge fund stanno facendo con gli immobili negli USA). Insomma, in queste condizioni avremmo potuto osannare la deflazione solo se avessimo potuto comprare l'intero comparto bancario commerciale del mondo per un nichelino.
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di Giandomenico Barcellona


«L’unico episodio in cui possiamo trovare prova d’un collegamento tra deflazione e depressione è la Grande Depressione (1929–1934). Non troviamo un tale collegamento in nessun altro periodo. […] Ciò che colpisce è che quasi il 90% degli episodi con deflazione non ha visto una depressione. In un contesto storico piú ampio, al di là della Grande Depressione, scompare l’idea che deflazione e depressione siano collegate.»

-- Andrew Atkeson & Patrick Kehoe (Federal Reserve Bank of Minneapolis), Deflation and Depression: Is There an Empirical Link?, gennaio 2004


1. QUALCHE CHIARIMENTO INTRODUTTIVO

Questa citazione precede un articolo intitolato “La deflazione è davvero una minaccia?” di Francesco Simoncelli apparso su The Fielder il 16 aprile del 2014, in difesa della deflazione. Nell’articolo l’autore, pur affermando che “non è certamente auspicabile un simile evento, e si dovrebbe condannare in primo luogo l’espansione monetaria artificiale che ha preceduto tale esito inevitabile”, asserzione indiscutibile che costituisce uno dei principali assunti della scuola austriaca, prosegue poi sottolineando il positivo effetto della deflazione, che consiste  nella liquidazione degli investimenti improduttivi e nel riallineamento del livello dei prezzi all’effettiva domanda di mercato. Tale visione si ritrova in altri lavori di economisti austriaci, come ad esempio in Patrick Barron “Temete il boom, non il bust”, in vari interventi di Gary North, ma costituisce in generale anche un mantra ripetuto ossessivamente dal liberismo vicino alla visione monetarista più ortodossa. Questo approccio ha tuttavia il difetto di presentare il ragionamento più dal punto di vista dei macroaggregati che da quello dell’analisi delle vicende dei singoli soggetti, delle loro sorti, delle loro interazioni e delle conseguenze delle loro azioni, discostandosi dall’individualismo metodologico caratterizzante la  scuola austriaca.

La questione va invece a mio avviso  meglio precisata in quanto si corre il rischio di confondere la stabilità della moneta con lo sgonfiamento delle bolle sorte in virtù della precedente espansione artificiale; come se quest’ultimo riconducesse alla stabilità monetaria, cosa che evidentemente non è. Invece si va a distruggere produzione reale interferendo nel processo di riallineamento e quando infine si ritorna al punto di partenza di un relativo equilibrio del sistema finanziario, ebbene tale fatto è visto come l’occasione per ripartire con un nuovo ciclo espansivo. Così, confondendo i piani, non solo si perde un’occasione fondamentale per evidenziare la realizzazione degli ammonimenti austriaci, ma  si viene ad essere addirittura male interpretati, finendo per sembrare cinici osservatori dei “giusti e sani” effetti di una spietata competizione.

Ora, se chi conosce i dettami misesiani può comprendere il senso del discorso riportandolo ad una salutare sveglia dopo una ubriacatura collettiva, l’assenza di specificazioni e il peana alla deflazione divengono un esercizio di massimalismo che porta ad un comprensibile ostracismo collettivo ancora maggiore verso l’economia austriaca, che viene ad essere ingiustamente percepita come l’etica economica della selezione naturale.

La deflazione non è una minaccia, come si legge nel titolo dell’articolo citato: è proprio l’avveramento della minaccia insita nel boom. Se ci sta un momento di sofferenza sociale che costituisce la riprova della validità dell’approccio austriaco, ebbene quello è il momento del bust: lì c’è la rivincita della formica sulla cicala, dell’imprenditore einaudinano su quello keynesiano, della scuola austriaca sulle altre scuole economiche mainstream. Quello è pertanto il momento di dire “ve l’avevamo detto”, non di indicare gli effetti taumaturgici della deflazione in corso. Ciò facendo, invece, la posizione austriaca si indebolisce: prima il boom viene esorcizzato, poi il bust lodato, e nessuno ovviamente può credere a chi afferma che si sta meglio quando si sta peggio.

Innanzi tutto vorrei sottolineare, con riferimento alla citazione posta come introduzione, che non è per nulla un caso che il collegamento tra deflazione e depressione si manifesti compiutamente nella grande depressione 1929-1934. Va precisato che la deflazione definita come diminuzione generalizzata dei prezzi (aggiungo per precisare: in regime di libero mercato), è cosa ben diversa dal bust misesiano. Mentre in regime di gold standard, od addirittura  in periodo di gold coin standard e di assenza negli USA di banca centrale (mi riferisco alla grande crescita economica, uno dei periodi di maggiore crescita nella storia economica,  avvenuto in regime di deflazione dei prezzi dal 1873 al 1896, secondo le statistiche contenute nel libro del 1963 di Friedman e Schwartz “A monetary History of the United States”), la diminuzione dei prezzi, definita come peraltro avviene generalmente “deflazione”, è stato fenomeno avvenuto come conseguenza del funzionamento del libero mercato, quello che è accaduto invece durante la crisi del 1929, come ha spiegato Rothbard nel suo libro “America’s great depression”, è stato un classico bust misesiano; una vera depressione, e non una diminuzione dei prezzi, che ha fatto seguito necessario alle politiche fortemente inflazioniste adottate dalla FED sin dall’epoca della sua creazione, nel 1913, ed in special modo a partire dal 1920.



2. LA DEFINIZIONE DI DEFLAZIONE E LA DINAMICA DELLA CONCENTRAZIONE DELLA RICCHEZZA IN REGIME DI FIAT MONEY

Quel che voglio precisare è dunque in prima istanza la definizione: non va fatta alcuna identificazione tra deflazione e diminuzione generalizzata dei prezzi, ciò che crea confusione al pari dell’identificazione tra inflazione ed aumento generalizzato dei prezzi. Perché  si tratta di fatti diversi, che contengono correlazioni e causalità, ma non hanno corrispondenza biunivoca: una diminuzione generalizzata dei prezzi, fenomeno altamente auspicabile dal consumatore ed indice di aumentata ricchezza collettiva, può avvenire, ed avviene costantemente nell’economia, per molte ragioni attinenti al funzionamento del libero mercato: tra tutte l’aumento di produttività, la concorrenza e l’innovazione tecnologica. In tutti questi casi i soggetti economici diventano più ricchi, perché possono acquistare una maggiore quantità di beni possedendo la stessa quantità di moneta. Mentre non è affatto vero l’inverso, cioè che il possesso di una minore quantità di moneta, la deflazione monetaria, rende più ricchi coloro che subiscono questo fenomeno.

La deflazione va identificata pertanto come una diminuzione della quantità di moneta disponibile per le transazioni economiche.

Chi segue le teorie della scuola austriaca sa che nella sua epistemologia l’inflazione non è definita come un aumento generalizzato dei prezzi, bensì come aumento della quantità di moneta. E’ poi vero che l’aumento della quantità di moneta porta, ceteris paribus, ad un aumento dei prezzi. Ma, appunto, ceteris paribus è impossibile in un sistema complesso come il mercato. E pertanto l’aumento avviene a livelli macro e nel tempo, laddove nel tempo accadono tante cose. L’innalzamento dei prezzi è fenomeno conseguenziale che non si presenta in modo uniforme nello spazio e nel tempo, né sui beni né in capo agli attori economici. Questa difformità accade in virtù di una serie di fattori concomitanti ma, dal punto di vista monetario, in quanto la diffusione della moneta fiat avviene attraverso fonti specifiche che avvantaggiano i primi prenditori: si tratta del c.d. Effetto Cantillon.

L’accumulo di liquidità nei prenditori privilegiati, i più vicini alla fonte monetaria, cioè il settore finanziario, quello pubblico ma anche quello privato imprenditoriale vicino al pubblico (ad esempio il settore degli appalti pubblici o le imprese che operano in regime di privilegio normativo in virtù di normative che comportano, anche indirettamente -- ad esempio  attraverso il possesso di elevati requisiti standard -- barriere all’accesso), provoca un aumento dei prezzi che non riguarda immediatamente i beni di consumo, pur a lungo termine toccati anch’essi. Sia perché nessuno può consumare quantità smisurate di beni di consumo, sia perché vengono presi una serie di accorgimenti affinché i costi dei beni di consumo principali restino bassi il più possibile: un costante e fortissimo impulso a migliorare la produttività del lavoro e delle imprese, l’apertura a mercati maggiormente concorrenziali, una attenta rivisitazione della composizione degli indici inflattivi, fino al caso disperato del controllo dei prezzi.

Pertanto la massa monetaria accumulata si riversa prima di tutto su determinate classi di asset, i cui prezzi aumentano a dismisura e si gonfiano sino a  finire in bolla: azioni, obbligazioni, opere d’arte, mercato del lusso, e, soprattutto e sfortunatamente, il settore immobiliare, che diviene così proprietà di grandi soggetti economici e meno accessibile per chi necessita dell’acquisto dell’abitazione. Insomma, la ricchezza da moneta fiat, creata ad libitum e dal nulla, non ha sempre a che vedere con la dinamica della domanda e dell’offerta di beni e servizi sul mercato, ma ha spesso a che fare col posizionamento dei soggetti nella catena distributiva del denaro, la c.d. cinghia di trasmissione.

Questo è uno dei modi in cui la ricchezza si concentra e si polarizza, aumentando e non diminuendo le diseguaglianze (per chi vede nelle diseguaglianze un necessario disvalore), ma soprattutto aumentandole in ragione di fattori esogeni alle libere scelte dei consumatori. Ecco, in breve, il motivo per cui continuare a creare nuova moneta non cambia la solita musica, anzi al contrario aggrava la situazione dei soggetti chiamati a rispondere del debito da emissione monetaria: la produzione reale. Che di rado consiste nei primi prenditori posizionati, i quali si posizionano altrettanto bene sia nel momento dell’apprensione del nuovo denaro quanto in quello della fuga dal pagamento del relativo debito da emissione.

En passant, l’altro fondamentale modo per ottenere e detenere posizioni non guadagnate nell’ambito di una libera concorrenza, è la manipolazione della regolamentazione normativa, fenomeno che si può denominare path dependance normativa, che ha a che fare con i casi di monopoli, oligopoli, concessioni, privilegi di qualsiasi genere, barriere all’ingresso di ogni tipo.



3. LA DEFLAZIONE IN REGIME DI FIAT MONEY

Allo stesso modo di quanto avviene per la definizione di inflazione, dunque, la deflazione dovrà quindi essere definita come una diminuzione della quantità di moneta, ancora più precisamente della quantità di moneta disponibile per le transazioni commerciali, e non come una diminuzione generalizzata dei prezzi. Difatti nell’articolo da cui ho preso le mosse, ad un certo punto la deflazione viene meglio precisata leggendosi testualmente “la deflazione monetaria, e la deflazione dei prezzi che ne segue”. In ipotesi di tal genere, l’eventuale diminuzione dei prezzi avviene non come benefico effetto dei meccanismi del libero mercato, ma come effetto conseguente alla diminuzione di moneta disponibile. Si verifica successivamente ad una stretta di politica monetaria ed al credit crunch che segue la parte espansiva del ciclo, dato che le banche hanno la necessità di ripulire i bilanci dai crediti in sofferenza concessi nel periodo di boom e sbornia monetaria.

Si tratta quindi di fenomeno del tutto artificiale, perché tutto in moneta fiat artificiale: sia l’aumento che la diminuzione di offerta monetaria. Precisamente, questa diminuzione è la conseguenza necessaria dell’espansione artificiale che l’ha preceduta.

Va solo precisato che la concessione del credito non è affatto fattispecie esclusiva del regime monetario fiat: il credito è stato il compagno di avventura dello sviluppo dell’economia e dell’umanità. La riserva reale, e la quantità di riserva, ne costituivano il limite, oltre il quale si giungeva al fallimento. Le banche centrali come detentori della riserva aurea fungevano, nella loro funzione ideale originaria (la realtà è sempre un’altra cosa) come una sorta di riassicuratori del sistema. Ma nell’attuale sistema delle banche centrali in moneta fiat, ogni limite pratico è rimosso: la politica monetaria fa da padrona assoluta ed il limite diviene esclusivamente politico, o comunque altamente discrezionale, altamente manipolabile, aggirabile, sino ai limiti dell’arbitrario. Ad esso concorrono certamente i fondamentali economici dell’area monetaria emittente, ma spesso essi emergono quando è troppo tardi. Invece sono di grande rilevanza soft power, hard power, capacità negoziale e statura politica, posizione geopolitica, media power.

Insomma, si sfiora l’arbitrio, tanto che le conseguenze sono le forti oscillazioni e manipolazioni dei prezzi create dall’economia finanziaria e dalle politiche delle banche centrali, divenute più importanti dell’economia reale, nel mentre si continua a ripetere che la loro mission è, addirittura, la stabilità dei prezzi. Se la stabilità dei prezzi debba essere poi effettivamente un valore da proteggere, è un altro argomento: ma è certo che la loro instabilità non dev’essere generata dalle manipolazioni nella creazione di moneta.

In una crisi deflattiva, cioè in una diminuzione di moneta in regime di fiat money, la diminuzione dei prezzi non avviene quindi in modo progressivo e spontaneo, non avviene per effetto di un benefico miglioramento delle condizioni di mercato, e non avviene senza traumi, perché la deflazione monetaria è ben più veloce dell’adeguamento sul mercato dei prezzi delle merci e del lavoro. Quest’ultimo, poi, soffre in modo particolare in virtù degli stringenti vincoli normativi, e ciò  poi si riflette anche sui prezzi delle merci.

Ma quello su cui desidero appuntare l’attenzione, è che, analogamente a quanto avviene con l’Effetto Cantilllon per l’aumento della quantità di moneta, la diminuzione della quantità di moneta non si presenta in maniera uniforme nella società.

Perché la moneta, che continua ad essere moneta fiat, e perciò creata dal nulla e messa in circolo attraverso il sistema bancario e la spesa pubblica (indipendentemente dalle leggere diversità tecniche presenti nelle varie aree monetarie mondiali) non diventa indisponibile per tutti, ma solo, selettivamente, per quelle classi di soggetti economici che la pianificazione economica,  monetaria, politica, colpisce per prime.

Come nell’Effetto Cantillon i primi prenditori, al vertice della piramide economica, beneficiano della vicinanza alla sorgente del denaro approvvigionandosi per primi ed in maggiore quantità; analogamente, in caso di repentina diminuzione di moneta, è la base della piramide economica, quella che riceve il denaro per ultima, a subire per prima gli effetti del prosciugamento della fonte.

Per cui prima di affermare che con la deflazione vengono colpite le inefficienze e la misallocation, si deve considerare la dinamica reale della restante distribuzione monetaria in momento deflattivo.



4. LE DINAMICHE E GLI EFFETTI DELLA DEFLAZIONE MONETARIA: SU CHI GRAVA UNA CRISI DEFLATTIVA E CHI NE BENEFICIA

Ovviamente la dinamica è in effetti molto complessa, direi caotica, e non così, per dire, geometrica come appena detto nell’esempio della piramide. Cionondimeno è possibile estrapolare qualche tendenza di massima, ed è senza meno possibile rilevare un fenomeno opposto ma analogo all’effetto Cantillon.

Siccome la cornucopia del denaro continua ovviamente a funzionare, seppur a regime ridotto, ci si ritrova ad osservare che i soggetti riparati dalla concorrenza o vicini all’emissione monetaria possono sopravvivere con più facilità alla deflazione di coloro che alla concorrenza sono esposti o sono lontani dall’emittente. Addirittura coloro che si trovano in posizione riparata dagli effetti deflattivi possono beneficiare del calo dei prezzi per acquisire a buon mercato i beni oggetto delle realizzazioni necessarie per finanziare i costi imposti, attraverso le forme tributarie più varie e fantasiose, per il ripiano delle passività finanziarie sistemiche.

La pulizia della deflazione avviene sovente a carico eccessivo dell’economia reale, produttiva di beni e servizi richiesti sul mercato, mentre non vengono toccate, o vengono comunque toccate di meno e solo in un secondo momento, se e quando si rivela imprescindibile, quelle sacche di inefficienza presenti tanto nel settore pubblico quanto nel settore privato (impresse sussidiate, protette ed in monopolio od oligopolio legale). D’altra parte non si può chiamare a pagare i debiti chi non ha la disponibilità finanziaria e patrimoniale; si dovrebbe però almeno avere la linearità comportamentale di cessare di finanziare le diseconomie.

Per quanto riguarda gli attori economici, sospinti in un ambiente sempre più competitivo, solo i più forti passeranno il bust. Costituisce tangibile riprova dell’iniquità dello svolgersi delle deflazioni il fatto che nel momento in cui molte imprese private, in specie medio piccole, entità comunque produttive di beni e servizi, sono costrette a chiudere sotto il peso di concorrenza sempre più forte e imposte gravose ed oneri accessori, la burocrazia non si ridimensiona, anzi magari accresce le sue fila per moltiplicare i controlli. E mentre i dipendenti privati perdono il lavoro, i dipendenti pubblici non soffrono analoga situazione (il che spiega bene il motivo per cui, nonostante molti si lamentino anche nel settore del pubblico impiego, ad ogni concorso si presenta un numero di persone impressionante rispetto ai pochi posti disponibili); le pensioni privilegiate e non contributive continuano ad esistere, le imprese sussidiate pure, le banche too big to fail continuano ad essere salvate, gli incarichi politici non recedono, i grandi appalti internazionali continuano allegramente così come per le industrie belliche non mancano i grandi contratti; le associazioni politiche, religiose e sindacali (e non solo quelle) continuano a beneficiare di finanziamenti ed esenzioni d’imposta.

Al contempo i produttori reali, imprese e lavoro in tutte le sue forme (autonomo, dipendente, etc.) debbono battersi sino allo stremo per la sopravvivenza. Non chiamerei tutto ciò “pulizia ad opera del mercato delle allocazioni errate”. Questo è un ragionamento di filosofia teoretica, non quanto avviene nella realtà. In parte sarà certamente pure così, ma non mi sembra che sia quello che accade in prima istanza.

La diminuzione di moneta non avviene primariamente per il tramite della diminuzione della spesa pubblica, e non avviene certamente in quel modo se non dopo aver esplorato ogni possibilità di resistenza. Viene bensì attuata sovente con l’aumento dell’imposizione sulla produzione reale e sui patrimoni più facilmente aggredibili (primo tra tutti: l’immobiliare). La deflazione in un sistema monetario a carattere non “reale” ma “obbligatorio”, basato sulla relazione credito/debito, altro non è che il rientro dall’eccesso di crediti divenuti inesigibili in capo al sistema finanziario, attraverso la diminuzione delle passività del settore finanziario medesimo verso i detentori del risparmio. Per diminuire il debito, visto da diversa prospettiva, devi diminuire i crediti. Si potrà trattare di bail-in, bail-out, default, aumento dell’imposta sul reddito, patrimoniale: sono tutte forme nelle quali si concreta la mediazione del potere che funge da cassa di compensazione delle partite creditorie e debitorie. In tutti i suddetti casi muta la scelta dei soggetti sui quali si decide di incidere attraverso scelte politiche che si rivelano episodiche, frammentarie, occasionali, non trasparenti ed autoritarie.

Ma non mutano il fine ed il risultato: abbassare l’esposizione debitoria complessiva del sistema divenuta eccessivamente gravosa e densa di insolvenze in seguito alla precedente espansione creditizia. Il ripristino dell’equilibrio del sistema creditizio per il caso della deflazione (ovvero, in assenza di operazioni di ristabilimento delle riserve da parte della banca centrale o di monetizzazione del debito pubblico) avviene quindi prelevando moneta a chi si può prelevare facilmente. Meglio ancora sarebbe dire che avviene annullando, sempre a chi è più a portata di mano e meno dotato di strumenti difensivi, i crediti dei depositanti verso il sistema finanziario a compensazione delle perdite sui crediti che tale sistema ha subito per aver concesso finanziamenti divenuti inesigibili. Il che non significa quindi che si vada a reperire le risorse nei confronti di chi ne ha di più (né tantomeno di chi le ha ottenute in virtù della posizione privilegiata al momento della distribuzione). Difatti la pianificazione concessa dalla libertà di circolazione di merci, capitali, persone, imprese (ed è una fortuna che questa libertà ci sia) ha un costo sostenibile solo da una dimensione economica e finanziaria di un certo livello. V’è una sorta di selezione naturale anche in questo momento, che ha a che vedere con la capacità e la possibilità di gestione delle complesse regolamentazioni.

E’ pertanto l’eccesso di oneri (tributari, burocratici, transattivi) e di regolamentazione, che spero nessuno vorrà sostenerne la scarsità, a creare quel fenomeno di autodifesa da parte degli attori economici che diventa e viene visto come prevaricazione da parte del più forte; è errato invece addebitare il fenomeno tratteggiato, come si fa solitamente, all’assenza di regole, tanto da discutersi impropriamente di “liberismo/capitalismo selvaggio” o  di “far west”. Perché la causa vera è all’opposto: la costrizione, l’asfissia, l’iper-regolamentazione, insomma l’assenza di libertà costringono i soggetti alla difesa dall’aggressività del dirigismo. E tuttavia solo chi è in possesso di maggiori risorse riesce effettivamente a tutelarsi.

Qui di libertà se ne vede ben poca: i soggetti economici sono costretti ad una competizione sempre più serrata da parte della pianificazione e dal settore parassitario; e l’unico mercato selvaggio è quello che riguarda il raggiungimento, personale od aziendale, di posizioni privilegiate e protette. E’ evidente che non si può dare la colpa a chi fugge da inferni fiscali, quanto si deve dare a chi li crea. Salvo, però, se da parte del fuggitivo non vi sia una sorta di compartecipazione nella creazione dell’inferno per chi vi rimane prigioniero.

Tornando all’esame della crisi deflattiva, le sacche di inefficienza e di potere resistono il più possibile, caricando sempre in misura maggiore il peso sull’economia produttiva. Solo quando non ci sta più nulla da prelevare, allora il settore parassitario tutelato dovrà necessariamente adeguarsi alla realtà: dopo che il sangue è scorso nelle strade, per citare il famoso aforisma di Nathan Rothschild, che nel frattempo avrà compiuto il suo shopping. Ma prima di allora sarà ragionevolmente stata fatta a spese dei produttori abbastanza pulizia nei bilanci da poter ricominciare.

Si arriva così ad un altro nodo della questione: si osserva che i settori più riparati dalla deflazione monetaria paradossalmente si arricchiscono in misura ancora maggiore che i primi prenditori durante la fase di boom, perché mentre durante questo tutti o quasi, seppur chi in misura maggiore chi minore, beneficiano dei flussi monetari, la deflazione monetaria è molto più selettiva nella distribuzione di quella minore quantità di moneta disponibile.

Certamente avviene che anche qualche importante player ci vada di mezzo. Ma sono casi minoritari, spesso sensazionali, e di solito i vertici sono protetti da precedenti distribuzioni, paracadute finanziari, e sono velocemente cooptati altrove.

Persino nel principale settore esposto ad una rapida dissoluzione delle bolle, il mercato azionario e finanziario in generale, spesso gli insider che muovono capitali enormi, gli stessi soggetti che hanno generato la rapida ascesa dei corsi, magari con consigli di strong buy, escono in tempo trasferendo le prossime perdite ai loro clienti privati o finanche istituzionali. Alcuni ritengono che nei mercati non solo si approfitti delle possibilità di arbitraggio, ma le oscillazioni siano addirittura create ad arte. D’altra parte si usano programmi di high frequency trading, strumenti sofisticati di ricopertura, credit default swap, derivati. Non invano. Chi dovrà essere uscito al momento opportuno lo sarà. Chi è dentro ne soffrirà. Non sarebbe la prima volta che qualcuno specula sull’andamento ondivago dei corsi azionari. Successe d’altronde anche nel 1929.

Il mercato azionario, si badi bene, è un luogo imprescindibile dell’economia e del moderno capitalismo; ma quanto evidenziato, che non si può negare che accade, non è un modo diverso dalla tassazione per trasferire ricchezza e mantenere in vita un settore improduttivo.

Sia nell’economia reale che finanziaria, pertanto, la dimensione assurge ad un ruolo importantissimo nel momento della crisi deflattiva, tanto che viene da ritenere che i cicli di boom e bust siano funzionali all’espansione di alcuni a danno di altri.

Chi ha accumulato beni reali e ricchezza finanziaria, i grossi attori economici che hanno accesso a più mercati, effettuano delocalizzazioni e pianificazione fiscale, continuano ad accumulare beni reali anche a più buon mercato, dato che molti sono costretti a monetizzare le loro proprietà per far fronte al pagamento dei debiti, di più difficile assolvimento poiché che la moneta non è più agevolmente disponibile.

Quegli stessi soggetti continuano a ricevere il credito bancario con maggiore facilità, sia per possibilità di dare maggiori garanzie, in quanto la centralizzazione del credito va di pari passo con la concentrazione dei soggetti economici, o solo per necessità sistemica dato che dal loro mantenimento in vita dipende la buona sorte delle erogazioni finanziarie già ricevute.

Chi può, beneficia dell’eccesso di offerta che fa calare i prezzi. Così è in questi periodi che si sviluppano ulteriori concentrazioni e si riducono classe media come anche la piccola e media impresa. Ci sta chi pensa che a livello macro questo sia un bene, ma il progresso esige i suoi capri espiatori.

In via più istantaneamente percepibile, e meno sistematica e generale, l’appropriazione da parte del settore privilegiato e da parte di quello parassitario, che avviene nel boom attraverso l’inflazione, nel bust avviene con l’aumento impositivo. In maniera forse più antipatica perché lascia minor scampo di quanto faccia l’inflazione, dalla quale almeno il risparmiatore può proteggersi con l’acquisto di beni reali, materie prime, oro. E’ difficile in effetti scegliere quale delle due piaghe sia preferibile, anche qui dipendendo dal posizionamento personale. La deflazione fa probabilmente più paura perché dà il senso del nowhere to run, perché avviene in clima di crisi e persecuzione fiscale, ma soprattutto perché genera recessione, e poi fallimenti e disoccupazione. Però va evidenziato che inflazione e deflazione sono due facce della stessa medaglia, e la seconda segue la prima come la notte segue il giorno, seppure la durata del ciclo è incerta dipendendo da scelte di politica monetaria, fattori economici, tecnologici, politici ed accadimenti geopolitici.

La moneta fiat, centralizzata ed a corso forzoso, è corrotta in qualsiasi momento, nel boom come nel bust: se affami la bestia allora la bestia ti divora; se levi al drogato il denaro per acquistare la droga, egli verrà a rubarti dentro casa. Non ci sta via di scampo, le scialuppe non sono sufficienti per tutti i naufraghi, ma ci sta pur sempre chi ha le scialuppe private prenotate. Od è già sbarcato.

E’ vero che lo stato teme la deflazione e la vive come la fine della festa, ma anche i sudditi dovrebbero temerla, a meno che non abbiano anche loro una scialuppa di salvataggio, perché è durante la deflazione che lo stato è capace di mostrare il lato oscuro del suo volto, la vessazione fiscale e burocratica. Nel mondo manipolato del fiat money tutto viene capovolto: la deflazione fa male al mercato e fa bene a chi al mercato non è esposto.



5. DALLA DEFLAZIONE ALLA RECESSIONE

La deflazione monetaria comporta di per sé una crisi di liquidità, anzi più esattamente essa è una crisi di liquidità. Ma è in virtù delle scelte arbitrarie della pianificazione sulla scelta dei soggetti chiamati a pagarne il conto che una deflazione si trasforma in recessione.

Invece di lasciare liquidare le posizioni frutto delle precedenti errate allocazioni al mercato, si interviene ancora, scegliendo di tassare dove si trova possibilità di aggredire con facilità e continuando a sussidiare. Talora per motivi squisitamente opportunistici, talora per motivi occupazionali (di buone intenzioni è lastricata la strada per l’inferno), sempre aggravando la situazione.

Giunti gli interventi pianificatori, non vengono necessariamente eliminati gli investimenti improduttivi o toccate le aree di privilegio: l’arbitrarietà esiste nel bust come nel boom, i banchieri centrali, le banche ed i politici decidono chi salvare e chi no.

Se dapprima si crea debito eccessivo con l’inflazione monetaria rispetto agli investimenti possibili (i famosi falsi segnali al mercato, gli investimenti non sorretti da risparmi reali), e pertanto si dà luogo ad eccesso di investimenti che non trovano remunerazione, non si danno infiniti modi per il rientro: la prima possibilità, all’inutilità della quale ho in precedenza accennato -- a causa della modalità del funzionamento del finanziamento -- è rifinanziare il sistema. Ciò è comunque possibile solo per quelle aree economicamente ancora forti che possono permettersi un ulteriore giro ed, usando una terminologia mutuata dal diritto commerciale, un annacquamento del capitale monetario. Ma è chiaro che in questo modo si rinvia la questione, aspettando il Godot del salto tecnologico che garantisca la crescita costante richiesta dall’infinita emissione monetaria a debito. Non considerandosi che il progresso ha i suoi tempi, le sue accelerazioni ed i momenti di stasi, che non possono essere continuamente ed eccessivamente forzati dall’espansione creditizia e dalla pianificazione monetaria. Quando, poi, così fan tutti, si arriva alla currency war.

La seconda possibilità è attraverso una rapida crescita del PIL in ragione di aumento dell’export, attrazione degli investimenti dall’estero, e di una veloce circolazione monetaria interna. Questo è quanto si cerca di raggiungere, anche imponendo legislativamente una serie di oneri transattivi, che sono costi transazionali da una parte e che dall’altra invece costituiscono PIL e gettito tributario. Ma non è facile raggiungere l’obiettivo in questo modo, perché ci vuole capacità e disciplina; perché i soggetti economici fanno di tutto per evitare l’imposizione di oneri non desiderati, correndo il rischio concreto di una fuga dei capitali; perché così facendo si appesantisce la circolazione con burocrazia e controlli che rallentano anziché  accelerare la vcm; perché è di ostacolo la concentrazione finanziaria (od accumulazione, o tesaurizzazione, o trappola della liquidità che dir si voglia) che richiede una rendita (anche perciò si tenta in ogni modo di manipolare  i tassi di interesse al ribasso) ma è statica quanto a circolazione;  perché, soprattutto, la psicologia della crisi induce i soggetti sfiduciati nel futuro al risparmio (ma al risparmio passivo, magari al ritiro del contante in banca; non agli investimenti) e non alla spesa, nel mentre i meccanismi emozionali dell’invidia e dell’attribuzione della colpa all’evasione sconsigliano la spesa medesima.

Se quindi questi modi di procedere al ripiano delle perdite sono insufficienti, ecco che si arriva alla modalità più dolorosa: l’aggressione al risparmio ed ai beni reali, ed i fallimenti.

Se v’è meno moneta in circolazione, e meno circolazione monetaria, se non calano le spese pubbliche, né i sussidi anti-economici, né i prezzi (costi) che sono più resistenti ad adeguarsi di quanto la deflazione sia veloce (anzi, con fare schizofrenico, i costi vengono aumentati per cercare di movimentare la vcm), e se infine il creditore finanziario è il soggetto protetto del rapporto, perché il mancato pagamento dei crediti oltre un certo ammontare conduce al crollo del sistema finanziario intero in virtù della forte interdipendenza, succede che il soggetto chiamato a farsi carico delle passività insolute, eccessivamente gravato da oneri improri, non può pagare il debito che su di lui viene imposto se non smobilizzando beni reali facenti parte del suo patrimonio. Siccome senza moneta che circola, e col prelievo di quella residua, è difficile saldare i debiti monetari, ecco che si verifica l’impossibilità di assolvere alle obbligazioni correnti e si giunge alle crisi di insolvenza.

L’insolvenza è impossibilità di fare fronte alle proprie obbligazioni pecuniarie: è questione di liquidità, e non sempre ha a che fare con la patrimonializzazione. Allora ecco la decrescita dei prezzi ma anche i fallimenti delle imprese. Il resto viene da sé: disoccupazione, calo dei consumi, del PIL, delle imposte, aumento del debito pubblico e delle sofferenze bancarie in un avvitamento che sembra non avere fine.

Nel periodo del boom, il momento della corsa all’oro, si indebitano i soggetti creando moneta (che sia debito pubblico o debito bancario, poco cambia visto che poi il settore bancario è pubblico anch’esso nel senso che nel sistema di moneta fiat deve essere protetto dal fallimento, a parte episodi minori, pena il default sistemico). Poi durante il bust, il momento del "si salvi chi può," si chiede alla collettività di pagare il debito artificialmente creato che il debitore prenditore originario non è in grado, per i più svariati motivi, di assolvere. Persino richiedendosi allo stesso tempo di continuare a sostenere il settore improduttivo. Purtuttavia non si fornisce la nuova moneta per pagare questo debito, per cui infine si aggredisce il patrimonio, finanziario o reale. Non ci può poi meravigliare della recessione. Il capitale viene bruciato due volte: una prima nel momento dell’allocazione improduttiva, la seconda nel momento del trasferimento dal settore produttivo a quello sussidiato per ristabilire l’equilibrio preduto.



6. CONCLUSIONI

Bisogna distinguere rigidamente la deflazione monetaria dalla deflazione dei prezzi, al pari di come si distingue l’inflazione monetaria dall’inflazione dei prezzi. La deflazione monetaria è un male perché si manifesta repentinamente e rende imprevedibile il calcolo economico. Questo evidentemente non vuol dire affatto che l’inflazione sia un bene: ogni artificiosa manipolazione del mercato monetario che lo rende instabile avvantaggia solo chi è nella posizione di poterne approfittare.

Ma va ripetuto che il fenomeno della deflazione monetaria in moneta fiat non è la stessa cosa che la deflazione dei prezzi da mercato libero in regime monetario aureo od in regime di libertà monetaria hayekiana, od anche dalla normale discesa dei prezzi nello stesso regime di fiat money in virtù del funzionamento del mercato concorrenziale. Non è di fronte a quella benefica discesa dei prezzi dei beni che ci si trova, ma alla mancanza della liquidità necessaria agli scambi e per l’assolvimento delle proprie obbligazioni, pur magari in presenza di adeguata capitalizzazione. Liquidità che in regime di corso forzoso ed assenza di libertà monetaria è difficilmente surrogabile. E’ sempre difficile e doloroso uscire da una crisi recessiva da deflazione monetaria, mentre la deflazione dei prezzi è benvenuta al consumatore, costituendo indice del progresso da buon funzionamento del mercato e della maggiore accessibilità e diffusione del benessere.

Di certo la questione è articolata ed anche in questo scenario il libero mercato non scompare del tutto: gli imprenditori reali, che hanno buoni prodotti o servizi, che innovano ed hanno idee, esistono e resistono.

Ma purtroppo avviene che la crisi deflattiva è controllata, gestita selettivamente, pianificata, premiante verso chi non sarebbe premiato dal mercato, conservatrice del privilegio e del parassitismo. La sofferenza e l’ingiustizia di una crisi deflattiva sono alimentate e moltiplicate dagli interventi della pianificazione che ritarda la guarigione, sottraendo ulteriori risorse produttive per dirigerle a salvaguardia dei soggetti meglio posizionati.

Fortunatamente il sistema è altamente caotico, di difficile prevedibilità e difficile controllo, per cui la moltitudine di soggetti presenti sul mercato, il sussistere in capo al medesimo soggetto -- in ragione appunto della struttura sistemica caotica e multiforme -- di posizioni attive e passive, il continuo riposizionarsi dei singoli che con la loro conoscenza diffusa risanano al meglio possibile la propria situazione e di riflesso quella generale, l’interdipendenza dei mercati, il lavoro quotidiano di milioni di imprenditori e lavoratori, la forza di ciò che sopravvive del mercato, attenuano i danni ed aiutano ad uscire dalla crisi. C’è il rischio che tutto questo sforzo divenga uno sforzo di Sisifo se le energie lavorative e creative imprenditoriali impiegate per l’uscita dalla recessione, vengono sprecate a causa di un altro momento espansivo.

Non bisogna arrivare ad una deflazione monetaria. La crisi deflattiva non si evita inflazionando, anzi l’inflazione ne costituisce premessa e causa, perché l’esito ultimo dell’inflazione è che il denaro non è mai sufficiente -- dando così origine ad una deflazione. Ed a ben vedere se si avverte la necessità di inflazionare, vuol dire che alla crisi deflattiva si è già arrivati. A quel punto l’opera di pulizia dei malinvestiment, che doveva avvenire già in precedenza in tempo pressoché reale, dev’essere la più immediata possibile, anche tenendo conto dei costi sociali. Gli economisti austriaci non dovrebbero lodare in maniera moralistica gli effetti curativi e taumaturgici della deflazione, che pur sussistono, ma sottolineare il dolore che ne viene e la eventuale gestione perversa della stessa, al fine di diminuire, non rafforzare, la richiesta di intervento statale. E dovrebbero chiaramente indicarne l’origine nel risalente eccesso di offerta creditizia e monetaria, proponendo le modifiche alla regolamentazione affinché il ciclo non si ripeta nuovamente. Insieme a tutto ciò potranno rivendicare la correttezza dell’analisi precedentemente effettuata.


giovedì 29 maggio 2014

Delirio keynesiano: i banchieri centrali dichiarano guerra alla stabilità dei prezzi, ovvero, ai risparmiatori

Non è esilarante (in un certo senso) notare come i media mainstream si straccino le vesti per vendere la balla di una ripresa nominale, mentre la popolazione nel suo complesso annaspa pesantemente? La realtà a quanto pare è un optional per coloro che amano sguazzare nel masochismo, le statistiche ed i modelli DSGE sono un fiorire di numeri allegramente rosei e decisamente positivi. In questo panorama economico, distorto fino al midollo, notiamo come alcuni indicatori vengano garbatamente ignorati: come ad esempio, la mole di sofferenze in pancia alle banche commerciali italiane. Restando sempre all'interno dell'acronimo PIIGS, troviamo come una delle banche commerciali del Portogallo navighi in acque agitate, la Francia che continua a stringere il cappio intorno al collo del contribuente francese, ecc. Ma qual è il problema? La presunta "lowflation". Chi se ne frega se gli investimenti improduttivi continuano ad essere un buco nero per risorse materiali ed umane! Anzi, si potrebbe fare come Detroit, no? Scavare buche e poi riempirle. Finirà male.
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di Detlev Schlichter


Apparentemente c'è un nuovo pericolo economico là fuori. Si chiama "inflazione molto bassa" e la zona euro è a grande rischio di soccombere sotto questa minaccia. "Un lungo periodo di bassa inflazione – o deflazione, quando i prezzi scendono con insistenza – allarma i banchieri centrali", spiega il Wall Street Journal, "perché [la bassa inflazione, DS] può paralizzare la crescita e rendere più difficile il ripagamento dei debiti per governi, imprese e consumatori". Le statistiche ufficiali dell'inflazione presso la BCE segnalano uno 0.7%, ancora positive e quindi non c'è alcuna deflazione.

Come la bassa inflazione possa paralizzare la crescita, non mi è chiaro. "Inflazione molto bassa" una volta era conosciuta come "stabilità dei prezzi" e veniva utilizzata per richiamare connotazioni più positive. In precedenza non era considerata come un pericolo per la salute. Perché questo sia improvvisamente cambiato, resta un mistero. Certamente non vi è alcun supporto empirico – di solito altamente considerato dai commentatori di mercato – quando si afferma che la bassa inflazione, o addirittura la deflazione, sia legata a recessioni o depressioni, anche se tale collegamento viene sospinto quasi ogni giorno (implicitamente o esplicitamente) nella stampa finanziaria. Nel XX secolo gli Stati Uniti hanno avuto tanti anni di inflazione molto bassa, e addirittura deflazione, i quali non sono stati segnati da recessioni. Nel XIX secolo, in un mondo in rapida industrializzazione, "l'inflazione molto bassa", o addirittura la deflazione persistente, erano la norma e tale deflazione era spesso accompagnata da tassi di crescita che oggi scatenerebbero l'invidia di qualsiasi paese del G8. A pensarci bene, l'economia capitalista con la sua costante tendenza ad aumentare la produttività dovrebbe creare deflazione persistente. La roba diventerebbe più accessibile. Le cose sarebbero più convenienti.



"Ultime notizie: i consumatori sono scioccati per la bassa inflazione e quindi non consumano!"

Allora qual è il punto in cui la bassa inflazione si trasforma improvvisamente in "inflazione molto bassa", e quindi diventa pericolosa? A giudicare dalla relazione della Banca d'Inghilterra rilasciata da Mark Carney la scorsa settimana e dalla dose di scherno che il settore finanziario scarica sulla BCE – "stupida" è come David Tepper di Appaloosa Management definisce l'istituto di Francoforte, stando a quanto riporta il FT (16 maggio) – la delimitazione deve ritrovarsi da qualche parte tra l'1.6% e lo 0.7% che tanto imbarazza Draghi.

Spesso si ripete che la bassa inflazione o la deflazione inducano la gente a rinviare gli acquisti, a differire il consumo. Secondo questa logica gli europei si aspettano che in un anno una cosa passi da €1,000 a €1,007, un cambiamento che non rappresenta una minaccia per il loro potere di acquisto poiché non li spinge fuori di casa a comprare qualsiasi cosa IN VISTA! Quindi, ecco il motivo per cui l'economia è depressa. Gli inglesi, invece, possono ragionevolmente aspettarsi che una cosa passi da £1,000 a £1,016 in un anno, e questo è un motivo più che convincente, si presume, per consumare nel presente. Gli inglesi sono così desiderosi di battere il 2% negli aumenti dei prezzi che si stanno caricando di ulteriori debiti e di ingenti spese in modo da comprare qui e ora. I "britannici sono in re-leveraging", ci dice Anne Pettifor sul The Guardian, "solo a marzo il credito netto al consumo è aumentato di £1.1 miliardi. Nello stesso mese il debito totale delle carte di credito ammontava a £56.9 miliardi. Il tasso di interesse medio sui prestiti delle carte di credito [si attesta] al 16.86 %." La Gran Bretagna è, come ci ricorda la Pettifor, la nazione più indebitata al mondo.

Per un attimo lascio da parte la questione se questi sviluppi dovrebbero costituire un motivo di maggiore "allarme per i banchieri centrali" rispetto "all'inflazione molto bassa". Di certo non hanno allarmato Carney ed i suoi colleghi, i quali hanno allegramente lasciato i tassi ai minimi e nessuno ha definito "stupida" la Banca d'Inghilterra. Di certo non sembrano allarmare la Pettifor. Vuole che la Banca d'Inghilterra mantenga i tassi bassi per aiutare tutti quei cittadini britannici gravati da debiti – e probabilmente ancora più britannici contrarranno debiti.

La Pettifor ha una visione altamente politicizzata della moneta e della politica monetaria. Per lei tutto questo è una gigante lotta di classe tra la classe dei risparmiatori/creditori e la classe degli spendaccioni/debitori, e la sua fedeltà è per quest'ultimi. Quei commentatori che invece richiedono un aumento dei tassi rappresentano "certi interessi", cioè i risparmiatori avari ed i creditori avidi. Che la politica possa far ripiombare l'economia in un'altra crisi, non sembra turbarla.

Alla Pettifor fà eco Martin Wolf, il quale ha categoricamente affermato sul FT che il "risparmiatore in cerca di un rischio basso" non è più una figura utile all'economia globale, e ha citato con approvazione John Maynard Keynes auspicando "l'eutanasia del rentier". "Oggi gli interessi non premiano alcun sacrificio," scrisse Keynes allora, sbagliando ovviamente: chiedetelo ai britannici di oggi se non spendere i loro soldi ora, ma risparmiarli per i giorni di magra, non comporti un vero e proprio sacrificio. I rentier di oggi non ottengono nemmeno l'interesse per i loro sacrifici, grazie a tutta questa politica di "stimolo". E ora si richiede a gran voce la fine della stabilità dei prezzi, per combinare una maggiore inflazione con tassi a zero. Non è molto divertente essere un risparmiatore in questi giorni – e dubito che queste politiche possano far felice qualcuno nel lungo periodo.



L'eutanasia del rentier giapponese

Quello che si intende con "eutanasia del rentier" lo possiamo vedere in Giappone, dato che nel paese la popolazione dei risparmiatori è in rapido invecchiamento e dovrà affidamento sui propri risparmi nella vecchiaia. Si presume che la nuova politica dell'Abenomics debba rinvigorire l'economia attraverso la svalutazione monetaria. "L'Abenomics era destinata a generare una forte crescita nominale," ha scritto Trevor Greetham (Fidelity Worldwide Investment) sul Financial Times la scorsa settimana (FT, 15 maggio 2014, pagina 28). "Il Giappone è in deflazione del debito da oltre 20 anni."

Davvero? – A marzo 2013, quando Abe scelse Haruhiko Kuroda come governatore della Banca del Giappone e venne inaugurata l'Abenomics, l'indice dei prezzi al consumo del Giappone era a 99.4. 20 anni prima, a marzo 1994, era pari a 99.9 e 10 anni fa, a marzo 2004, a 100.5. In 20 anni i prezzi al consumo del Giappone sono scesi dello 0.5%. Certo, ci sono stati periodi di calo dei prezzi e periodi di aumento dei prezzi nel mezzo, ma è necessario un microscopio per rilevare eventuali variazioni dei prezzi nel paniere giapponese dei consumi. Il consumatore giapponese non ha sofferto per la deflazione, ma ha goduto di una stabilità dei prezzi per 20 anni.

"Il problema principale dell'economia giapponese non è la deflazione, è la demografia," ha dichiarato Masaaki Shirakawa in un discorso al Dartmouth College due settimane fa (come riportato dal Wall Street Journal Europe il 15 maggio). Shirakawa è l'ex-governatore della Banca del Giappone il quale nel 2013 è stato estromesso senza tanti complimenti da Abe, quindi si può dire che sia prevenuto. Non importa, le sue argomentazioni hanno senso secondo me. "Shirakawa," riporta il Journal, "la chiama 'una deflazione molto mite' [e io invece la chiamo stabilità dei prezzi, DS] la quale ha avuto il vantaggio di aiutare il Giappone a mantenere basso il tasso di disoccupazione." Il tasso di disoccupazione ufficiale in Giappone si attesta ad uno strabiliante 3.60%. Forse i giapponesi non se la sono cavata così male con la stabilità dei prezzi.

Sia come sia, dopo un anno di Abenomics si scopre che un aumento dell'inflazione non era proprio quel veicolo di prosperità che ci si aspettava. Ecco di nuovo Greetham: "Le cose non sono così semplici come erano... L'aumento dell'imposta sulle vendite ha spinto l'inflazione di Tokyo ad un picco ventennale del 2.9% ad aprile, andando a diluire il potere d'acquisto reale ed a peggiorare il tenore di vita di molti consumatori più anziani a reddito fisso."

I "consumatori più anziani" di Greetham sono probabilmente i "rentier" di Wolf, ma in ogni caso queste persone non stanno passando un bel periodo. I sostenitori di "politiche moentarie allentate" ci dicono che una valuta più debole rappresenta una spinta per le esportazioni, ma nel caso del Giappone uno yen più debole aumenterà i prezzi dell'energia poiché il paese è fortemente dipendente dalle importazioni di energia.

Prima si pensava che i giapponesi non consumassero abbastanza perché i prezzi non stavano aumentando abbastanza velocemente, ora non possono consumare abbastanza perché i prezzi stanno aumentando. Il problema con l'inseguire la "crescita nominale" è che il "potere d'acquisto reale" può prendere una batosta.

Se tutto questo è fonte di confusione, Greetham ci offre una speranza. Abbiamo solo bisogno di una barca più grande. Altro stimolo. Vedete, questo è il problema con lo stimolo keynesiano: è necessario implementarne sempre di più e renderlo sempre più grande, nel tentativo di sfuggire alle conseguenze non intenzionali.

Se Greetham ha ragione o no sul mercato azionario, non lo so. Ma una cosa sembra abbastanza ovvia secondo me: se si potesse migliorare la propria economia attraverso l'allentamento monetario e la svalutazione monetaria, oggi l'Argentina sarebbe uno dei paesi più ricchi del mondo, come in effetti lo era all'inizio del XX secolo prima che iniziassero le varie svalutazioni dei suoi molti governi incompetenti.

Nessun paese è mai diventato più prospero mediante la svalutazione della sua moneta e la rapina dei suoi risparmiatori.

Finirà male – anche se probabilmente non subito.



Pensieri finali

Cosa significa tutto questo? – Non lo so (e, ovviamente, potrei aver torto), ma credo quanto segue:

La BCE taglierà i tassi a giugno, ma questa è la politica più pubblicizzata e attesa da lungo tempo. Alla fine i ribassisti sull'euro rimarranno delusi. La BCE non andrà "all in", e non c'è motivo per farlo. La mia impressione è che un indebolimento pronunciato dell'euro rimane improbabile.

A mio modesto parere, e contrariamente al consenso del mercato, la BCE ha perseguito una strategia "meno brutta" rispetto a tutte le principali banche centrali. Niente QE; lo stato patrimoniale si sta ancora restringendo; inattività su larga scala. Che cos'è che non va?

Pettifor ed i suoi compari odiatori dei risparmiatori possono star sicuri che un qualsiasi restringimento del bilancio delle banche centrali è lontano, specialmente nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Le banche centrali considerano fondamentale il loro ruolo, soprattutto nel sostenere i mercati degli asset, l'economia, le banche e lo stato. Sono pietrificate all'idea di poter far deragliare qualsiasi cosa se adotteranno una politica più restrittiva. Un'inflazione più alta rappresenterà il fine partita, ma quando arriverà è ancora una congettura. La crescita, di per sé, non porterà ad una risposta significativa da parte dei banchieri centrali.

L'Abenomics andrà avanti, ma fallirà. La domanda è se verrà attuata su una tale scala da provocare disastri, o se riceverà la propria "eutanasia".


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


mercoledì 28 maggio 2014

Le follie della FED





di David Stockman


Finora ci sono stati 7 milioni di pignoramenti. Al di là di ciò, ci sono ancora 9 milioni di proprietari di case gravemente sommersi per i mutui e ce ne sono altrettanti milioni con l'acqua alla gola perché non hanno abbastanza equity positivo per coprire i costi di transazione e le esigenze di pagamento più stringenti.

Tutto questo prima della prossima flessione dei prezzi immobiliari — uno sviluppo che può presentarsi da un giorno all'altro. In realtà un'altra flessione è una certezza ormai, dato che gli speculatori si stanno rapidamente tirando fuori da questi mercati toro in Arizona, California, Los Vegas, Florida e altrove. Gli ultimi segnali di prezzo erano semplicemente eruzioni di breve durata, un artefatto delle politiche monetarie allegre della FED.

Anche se Wall Street si dirigerà verso le uscite, ancora non si è vista la normale ondata di acquirenti. Questo perché la normalizzazione inesorabile dei tassi di interesse sta spingendo più a sud l'accessibilità ad un immobile, tra la coorte sempre più scarna di quelle famiglie con un reddito sufficiente da soddisfare gli attuali standard di finanziamento.

Tra queste ultime, i redditi sono stagnanti in termini reali e lo sono stati per un decennio. In assenza di guadagni nel reddito reale, dunque, il prezzo "abbordabile" per le abitazioni è essenzialmente una funzione inversa del leveraged carry trade.

In breve, il caos socio-economico mostrato nel grafico sottostante non è la fine di un incubo dal quale ci stiamo riprendendo lentamente (come gli stampatori folli vorrebbero farci credere in base ai "dati presenti" nel grafico). I produttori seriali di bolle presso l'Eccles Buolding hanno già gettato le basi per il prossimo bust dei mutui, i prossimi pignoramenti di case e la relativa ondata di famiglie esposte a disagio sociale.




Eppure questa carneficina non era inesorabile o necessaria. In realtà, la gigantesca bolla immobiliare gonfiata durante l'era Greenspan non si sarebbe potuta verificare in un libero mercato. Il guadagno di 3x nei prezzi delle abitazioni tra il 1994 e il 2007, era solo un artefatto della massiccia effusione di debito ipotecario a buon mercato che c'era in quel periodo. Tale debito ipotecario, a sua volta, era una conseguenza delle politiche di repressione finanziaria della FED — manovre che sono andate a disattivare e paralizzare i tassi di interesse di mercato e, quindi, hanno consentito speculazioni selvagge su debito a buon mercato virtualmente illimitato.




Anche i piccoli passi intrapresi dalla FED verso la normalizzazione dei tassi di interesse, ci permettono di confrontare la monumentale bolla dei mutui gonfiata dalla capitolazione abietta del Maestro nei confronti di Wall Street dopo che nel dicembre 2000 i repubblicani di Bush si insediarono alla Casa Bianca. La stampa sconsiderata di denaro da parte di Greenspan, aumentò i volumi dei mutui fino a 5x rispetto a quello che sarebbe successo in un libero mercato.

Come ho scritto nel capitolo 20 del mio libro, The Great Deformation (“How The Fed Brought The Gambling Mania To America’s Neighborhoods”), durante i 30 mesi successivi alla prima bolla della FED — il crollo delle dotcom — Greenspan tagliò stupidamente i tassi di interesse del mercato monetario; nel giugno 2003 il costo del denaro arrivò all'1%, rispetto al 6.5% alla vigilia di Natale del 2000. Mai nella storia centenaria della FED i tassi erano stati ridotti dell'85% in un tale breve intervallo e con suddetto sconsiderato abbandono.

Non sorprende, quindi, che i mutui a tasso variabile andassero di moda, proprio perché i tassi di interesse teaser crollarono a livelli inferiori di quelli nella Grande Depressione. Mentre negli anni precedenti i mutui raramente superarono i $1,000 miliardi, nel secondo trimestre del 2003 oltrepassarono i $5 bilioni.

Una tale esplosione di debito ipotecario a prezzi stracciati, era ovvio che scatenasse una frenesia speculativa nell'edilizia residenziale. Infatti, come è evidente nel grafico sopra, durante i 60 mesi dopo la riduzione dei tassi, l'indice nazionale dei prezzi delle abitazioni è raddoppiato.

I grandi presidenti della FED di ieri come William McChesney Martin e Paul Volcker sarebbero inorriditi davanti a un tale scoppio di speculazione e non avrebbero esitato a buttare fuori dalla finestra la fischetta di alcol monetario. Questo è ciò che fece Martin nell'agosto 1958, quando pensò che ci fosse troppa speculazione a Wall Street sei mesi dopo una ripresa dell'economia.

Ma Greenspan era stato incoronato come il Maestro e procedette a dimostrare il motivo per cui la pianificazione monetaria centrale è una dottrina pericolosa. Quando divenne evidente che grandi quantità di questa massiccia effusione di debito ipotecario venivano utilizzate come finanziamento per spese correnti (come nuovi tappeti, auto e crociere ai Caraibi), andando a compromettere l'equity sottostante, Greenspan annoverò questa follia tra i favolosi progressi dell'innovazione finanziaria. La chiamò “mortgage equity withdrawal.” Avrebbe addirittura superato Keynes: il popolo, non il suo governo, avrebbe assorbito l'elisir magico del debito e quindi avrebbe generato più spesa, più reddito e più crescita economica.

In realtà la generazione dei baby-boomer americani stava intaccando gli anni della propria pensione futura, ma il Maestro ne era ignaro. Invece era occupato a monitorare il tasso trimestrale del MEW (“mortgage equity withdrawal”) e si vantava di come stesse contribuendo alla prosperità senza precedenti di Main Street. Naturalmente l'esperimento è finito in una conflagrazione di prestiti non performanti, frodi, default e migliaia di miliardi di perdite finanziarie, ma non prima che i $5 bilioni di MEW rovinassero il benessere finanziario della classe media americana.

Con tassi di interesse di libero mercato i $5 bilioni di MEW — cioè, compromettere il proprio futuro per fare festa oggi — non sarebbero esistiti. Senza il periodo 2003-2006, i tassi di interesse dei mutui sarebbero saliti a livelli a due cifre, causando un raddoppio o una triplicazione mensile dei ripagamenti dei debiti. Inoltre, in un contesto di tassi di interesse di libero mercato, non ci sarebbe stata alcuna espansione monetaria artificiale; non ci sarebbero stati nemmeno finanziamenti ultra-convenienti che Wall Street avrebbe utilizzato per finanziare mutui ipotecari e generare cartolarizzazioni tossiche con pronti contro termine a prezzi stracciati.

In breve, i tassi di interesse di libero mercato rappresentano il meccasimo vitale di controllo e di equilibrio che impediscono spirali di debito e una frenetica ascesa dei prezzi degli asset. Eppure è stata la dottrina "dell'effetto ricchezza" di Greenspan che ha distrutto il meccanismo onesto di price discovery. La carneficina nei mercati del credito e delle abitazioni, quindi, è colpa tua, Alan Greenspan.

Anche l'esito della stampa di denaro di Bernanke (2008-2013) fornisce un'ulteriore prova della colpevolezza di Greenspan. Durante tale periodo, la FED ha spinto il tasso ipotecario a 30 anni dal 6.5% ad un minimo del 3.3%, innescando così una nuova ondata di "euforia."

Sin dalla primavera del 2013, quando la FED ha segnalato che i suoi massicci acquisti di obbligazioni avrebbero subito un "rallentamento," il tasso dei mutui è rimbalzato a circa 4.5%. Di conseguenza circa il 35% della repressione di Bernanke è già stata revocata e anche quel modesto inizio verso la normalizzazione dei tassi di interesse ha avuto un impatto drammatico sui volumi dei mutui.

La macchina di rifinanziamento dei mutui è ormai praticamente spenta, il che significa che il ritmo dei mutui è sprofondato a $1 bilione. Quindi i calcoli sono piuttosto semplici: durante la bolla immobiliare di Greenspan il ritmo dei mutui cumulava circa $3-4 bilioni l'anno — un livello notevolmente superiore rispetto a quello che viene generato in questo momento, in un mercato che ha intrapreso solo un piccolo passo verso la normalizzazione.

Inutile dire che è stata l'artificialità di questo enorme eccesso di finanziamenti ipotecari che ha creato la bolla immobiliare di Greenspan; la quale ha indotto il suo successore a superare la carneficina del bust con un nuovo ciclo di follia; il quale ha devastato il mercato immobiliare residenziale del paese per la quarta volta sin dal 1990.

Come mostrato di seguito, questo rapido boom dei prezzi delle abitazioni indotto dalla stampa di denaro di Bernanke, ha buttato fuori dal mercato gli acquirenti di prime case. Ed ora sempre più acquirenti "trade-up" verranno buttati fuori dal mercato — mentre sperimenteranno tassi di interesse costantemente più alti sui nuovi mutui e quindi livelli di prezzo degli immobili progressivamente più bassi:




Il mercato immobiliare è alla vigilia di un altro viaggio verso il tritacarne del calo dei prezzi, dell'aumento delle insolvenze e della diffusione di disagio socio-economico per Main Street. Tuttavia, poiché la FED cerca di cavarsela con scuse ridicole per il caos che provoca — come l'affermazione patetica di Greenspan secondo cui la bolla immobiliare è stata causata dalla propensione al risparmio degli ex-agricoltori cinesi che si sono trasferiti nelle città — il ciclo debilitante delle bolle seriali va avanti.

Come sottolinea anche il Wall Street Journal, i dirigenti politici e gli istituti di credito sono tanto a caccia di una ripresa fasulla dei finanzimaenti immobiliari da riesumare la caparra del 3% per i mutui, e le 10,000 pagine di normative della Dodd-Frank non hanno fatto nulla per fermarlo:

Un tale istituto di credito è la TD Bank, che venerdì ha iniziato ad accettare caparre del 3% attraverso un'iniziativa chiamata "Right Step," operazione indirizzata ai compratori di prime case e famiglie a basso-medio reddito.

Agricoltori cinesi che risparmiano... Tsk, roba da pazzi.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


martedì 27 maggio 2014

Mercati FX: La chiave per predire i movimenti di prezzo dell'oro





di Greg Canavan


Nel 1914 l'oro era denaro.

Allora il denaro non era un debito o un credito, era semplicemente oro e le banche creavano credito in cima alle loro riserve d'oro. Non potevano sbizzarrirsi nel processo di creazione del credito, perché c'era solo tot. oro nel mondo e la sua offerta cresceva di circa il 2%.

Inoltre l'oro (non il debito) era una forma di pagamento internazionale, quindi la crescita del debito era fortemente contenuta. Se si aveva un deficit commerciale, i creditori richiedevano il pagamento in oro per saldare il debito. Se si era a corto di oro, i tassi di interesse sarebbero saliti (per scoraggiare il consumo e favorire il risparmio) e il deficit commerciale sarebbe oscillato lentamente verso un surplus.

Questo è più o meno come il gold standard manteneva le cose in equilibrio. Ma nel 1922 tutto è cambiato...

Dopo quella data il mondo imboccò il percorso su cui è oggi, dove denaro, debito e credito sono tutti termini intercambiabili. Dove il debito deve aumentare affinché il sistema possa andare avanti, e dove aumenterà a tal punto che collasserà su se stesso.

La maggior parte della gente pensa che l'architettura monetaria mondiale sia cambiata in peggio nel 1971, quando Nixon recise il legame del dollaro con l'oro . Ma in realtà fu un piccolo evento nel 1922 che diresse il sistema monetario globale sul suo attuale corso.

Nel frattempo, abbiamo dato uno sguardo alla presentazione di Marc Faber ad una conferenza tenutasi a Melbourne, Australia, e la sua premessa fondamentale è che il sistema sia ormai agli sgoccioli.

Per quanto riguarda il denaro, il Wall Street Journal descrive come nel 2013 sia rallentata la crescita degli utili per le grandi banche cinesi. I profitti delle banche industriali e commerciali della Cina sono cresciuti del 10%, il ritmo più lento sin dal 2006. Gli utili della Banca di Cina sono cresciuti del 12%, il secondo ritmo più lento sin dal 2006. E la Banca Agricola di Cina ha fatto registrare un 15% di aumento degli utili, ma si trattava ancora del ritmo più lento sin dal 2010.

Le grandi banche cinesi fanno profitti grazie allo stato. Anche se la normativa è stata un po' allentata di recente, per anni la repressione finanziaria ha permesso alle grandi banche di intascare uno spread del 3% sui prestiti. Cioè, i depositanti ricevevano un interesse del 3%, mentre gli oneri finanziari erano del 6%. La differenza se la portava a casa la banca.

Come mostra il grafico qui sotto, dal 2009 la crescita dei prestiti in Cina è stata enorme. Anche se sta rallentando leggermente, è ancora di poco inferiore al 15%. Il recente rallentamento è per la maggior parte dovuto al "settore bancario ombra," che è incluso nel tasso di crescita del "total credit."




Ma il problema è che alcuni dei prestiti concessi dalle banche durante la fase di boom, stanno tornando indietro a chiedere il conto...

Le sofferenze bancarie sono in aumento e la bolla del credito si sta sgonfiando, le banche dovranno scordarsi i profitti del passato. Aspettatevi una maggiorazione di questi problemi nei prossimi anni. Il mercato se li aspetta sicuramente, motivo per cui le banche cinesi sembrano "a buon mercato."

Cosa è successo al buon vecchio "denaro"? L'oro, àncora di salvataggio del sistema finanziario globale, ora non è altro che un relitto in un mare di debiti. Ieri sera è sceso di un altro paio di dollari, e attualmente è circa $100 l'oncia inferiore a quello che era 10 giorni fa. Addio alla ripresa dell'oro!

L'oro è una mera ombra di se stesso. Il trading nel mercato dell'oro è ora dominato da moduli cartacei (derivati) del metallo. Il trading del metallo fisico costituisce una parte molto piccola del mercato totale.

Quando un sistema finanziario passa da sonante a non-sonante, crea più rivendicazioni sugli asset reali rispetto alla loro disponibilità fisica. Quindi il sistema crea asset di carta per assorbire l'offerta costante di nuovo denaro/credito/debito. Da qui l'esplosione del mercato dei derivati ​​negli ultimi decenni.

La maggior parte degli investitori non possiede asset reali; vi è semplicemente "esposto" tramite il mercato dei derivati​​. Oppure nel caso dell'oro, che ricopre anche il ruolo di moneta alternativa, i derivati ​​(o i relativi moduli cartacei) si estendono ai mercati valutari. Già negli anni '70 l'oro ha ricevuto un simbolo di valuta, XAU, che lo ha reso disponibile per il trading nei mercati dei cambi (FX).

I mercati FX sono enormi. Sono i più grandi mercati del mondo per volume. Nel 2011 il London Bullion Market Association (LBMA) ha pubblicato una relazione nella quale mostrava come la compensazione giornaliera nel mercato dell'oro raggiungesse l'equivalente di 5,400 tonnellate, pari a circa $240 miliardi di quell'anno.

L'anno scorso abbiamo inviato una e-mail al LBMA nella quale chiedevamo se il trading dell'oro, come valuta FX, fosse il responsabile degli enormi volumi. Abbiamo ottenuto la seguente risposta:

La relazione comprendeva tutte le forme di trading dell'oro, incluso quello valutario che ha contribuito ai numeri significativi che sono risultati dall'indagine.

Quindi la maggior parte del trading "dell'oro" avviene nei mercati FX e non ha nulla a che fare con l'oro fisico. Non c'è da sorprendersi se sia stato trasformato in una bestia volatile. I segnali di prezzo corretti che il povero vecchio oro fisico veicolava, mettendo in guardia dagli eccessi del sistema, sono stati smorzati per bene.

Saluti,


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


lunedì 26 maggio 2014

Come il QE stimola una ripresa reale dell'economia

Non contenti dei guai eruttati nel 2008, i pianificatori centrali hanno combianto un altro bel casino con la tanto decantata strategia della ZIRP. Il mercato immobiliare sta tornando ad essere la patata bollente che è stata fino al 2007. Dopo che i grandi fondi sono stati dietro alla politica della FED creando volume con l'inglobamento degli asset scoppiati, hanno lanciato un nuovo modo di condurre gli affari: "buy to rent." Invece di permettere una sana pulizia del mercato immobiliare, i prezzi negli ultimi due anni sono stati riportati su del 25-50% con l'ennesima bella botta di debito. Questa volta, però, la macchina gonfiabolle di Wall Street ha prodotto qualcosa di simile ai titoli spazzatura apparsi grazie alla bolla immobiliare dell'era Greenspan-Bernanke: si è passato dal cartolarizzare i mutui a cartolarizzare il flusso di pagamenti degli affitti. La ripresa del lavoro stenta a decollare? I salari reali sono in caduta libera? Con cosa pagheranno gli affittuari se non possono permettersi il costo dell'affitto? Questo ovviamente i modelli di Wall Street non se lo domandano, come non si spiegano nemmeno un aumento vertiginoso dei prezzi degli immobili in così poco tempo rispetto alle loro previsioni più miti. Arrivederci anche alla ponderazione del rischio. Nell'ambiente economico distorto di oggi, con le entità sussidiate dalla FED in cerca di rendimenti decenti, chi correrà per primo verso l'uscita se ne andrà con qualcosa in tasca.
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di Bill Bonner


Di recente il nostro collega presso la rivista britannica MoneyWeek, Merryn Somerset-Webb che vive a Edimburgo, in Scozia, si è occupato del nostro suggerimento: si sta meglio, ceteris paribus, in uno stato la cui influenza è davvero ristretta:

Se la Scozia voterà per l'indipendenza diventerà una nazione socialista, non una ricca e capitalista. Il risultato sarà una profonda miseria. Non credo che sia qualcosa di desiderabile. E' un disastro annunciato. Quello che stanno facendo le piccole realtà in questi giorni, a meno che non siano paradisi fiscali pieni di persone istruite (Svizzera), è gozzovigliare in un ventaglio di nepotismo/furto/danneggiamento/settore pubblico e poi crollare.

Merryn probabilmente ha ragione. Grandi o piccole, le élite al potere vogliono sempre quanto più malgoverno possibile – e spesso anche di più!

L'idea dello stato moderno, cari lettori, è far finta che i federali lavorino per il cittadino. La popolazione è portata a credere che i suoi nemici saranno sconfitti, che i ricchi saranno derubati in modo che essa possa beneficiare del bottino e che tutto quello che ha di più caro sarà protetto, valorizzato e reso obbligatorio.

Nel frattempo, il nostro collega presso Diary of a Rogue Economist, Chris Hunter, ci informa che il consumatore americano non è più in deleveraging. Si sta di nuovo rivolgendo ai prestiti. Scrive Reuters:

Il debito delle famiglie americane è aumentato nell'ultimo trimestre, segno che gli americani possono finalmente smettere di stringere la cinghia, come mostrano i dati di martedì della Federal Reserve Bank di New York.

Secondo il quarterly household debt and credit report della FED di New York, il debito totale dei consumatori è salito del 2.1%, raggiungendo nel quarto trimestre 2013 $11.520 miliardi rispetto agli $11.280 miliardi del trimestre precedente. L'aumento, $241 miliardi, ha segnato il salto trimestrale più grande sin dal terzo trimestre del 2007.

Questa notizia puo' essere: (1) erronea, (2) casuale o (3) rappresentare un nuovo trend importante. Per il momento ci schieriamo con l'opzione #2.

Ma diamo al consumatore americano il beneficio del dubbio: se c'è un modo affinché possa scavare più in profondità, allora tirerà fuori la vanga. I bassi tassi di interesse della FED stanno aspettando solo lui. Ed ora che ha un pò più di equity sulla sua casa, può essere incline a scavare.

Ma sta invecchiando. Si stanca presto. E ha visto cosa succede quando ha l'acqua alla gola. Ricorda quanto era pressante il disagio.

Inoltre, la demografia sta cominciando a rivoltarsi contro il metodo "prendi in prestito e spendi." Quindi non è chiaro se continuerà a prendere prestito al tasso dello scorso trimestre.

L'età e la popolazione — insieme con il debito — hanno grandi conseguenze per i prezzi delle azioni. Ai livelli di oggi — sulla base di modelli storici sin dal 1871 — alcuni prevedono che le azioni crolleranno... per tanto, tanto tempo.

La demografia è solo una componente. Il nostro analista ci dice che solo la demografia rappresenterebbe un dato negativo pari a circa il 5% annuo — il peggiore mai registrato. Infatti ha senso; mai così tante persone negli Stati Uniti si sono avvicinate al pensionamento nello stesso frangente di tempo.

Ma aspettate. Una popolazione che diventa più vecchia è veramente importante?

Questa è una domanda che ci hanno posto di recente.

"Quasi metà dei profitti dell'S&P500 provengono oltreoceano," sottolinea Chris, che lavora anche come family office project’s Investment Director. "La demografia degli Stati Uniti non dovrebbe avere tanto effetto."

"Ma la maggior parte di quei profitti provengono dall'Europa e dal Giappone," ribatte Rob Marstrand, il nostro Chief Investment Strategist. "E i loro dati demografici sono peggio dei nostri."

Infine abbiamo deciso che la fonte dei profitti dell'S&P500 non importa. Il modello esamina l'effetto della demografia sui prezzi delle azioni, non sui guadagni. I prezzi di oggi sono costruiti sui guadagni di oggi – che comprendono le vendite ed i profitti all'estero.

Lo studio si limita a prevedere che gli anziani potranno vendere azioni – non importa quali siano i loro profitti – riducendo il rapporto P/E... e, naturalmente, i prezzi.

Per una nazione, come per la sua struttura del capitale, il debito e la demografia sono il destino.

Naturalmente, qualsiasi modello basato sulla storia presuppone che il futuro sarà più o meno come il passato. Anticipa che le cose straordinarie che stanno accadendo oggi, domani verranno "normalizzate."

In passato, quando i prezzi delle azioni, il PIL, il debito e la demografia erano simili a oggi, il processo di normalizzazione ha fatto scendere le azioni – un sacco... e per tanto tempo.

Ma mai in passato una nazione aveva fatto ricorso al QE ed a Janet Yellen.

Come abbiamo detto spesso, il debito può essere gentile (come il Dr. Jekyll) quando si espande. Ma diventa maniacale quando si contrae.

Mr. Hyde si è presentato nel 2008, e la festa è finita. Gli Stati Uniti sono quindi passati attraverso una fase di contrazione del debito. Ce la siamo sciroppata fino ad ora. Fino all'ultimo trimestre dello scorso anno, il settore privato o ripagava il debito o andava in default.

Ma sin dal 2008, abbiamo avuto a che fare con ambiguità, personalità multiple e confusione. Mentre le famiglie e le imprese affrontavano il deleveraging, Washington faceva l'opposto.

I federali hanno accumulato quasi $7 bilioni di debiti dopo il 2007. Nel complesso, il debito in rapporto al PIL si è ridotto... ma non di molto. E' sceso dal 360% fino al 345%.

Il deleveraging era la reazione naturale del mercato al debito in eccesso. Il QE è stata la risposta innaturale e mostruosa della FED. Ha ampliato il suo bilancio raggiungendo l'incredibile cifra di $4 bilioni. Da un recente rapporto di ricerca della Bank of America Merrill Lynch:

Il modus operandi della FED ha riguardato i prezzi degli asset e gli spiriti animali. Ciò ha fatto salire i prezzi delle azioni, ha stimolato gli spiriti animali delle corporazioni mediante l'emissione di debito a buon mercato, ha permesso il riacquisto di azioni con denaro contante o con debito a buon mercato per aumentare gli utili per azione, ha ridotto il costo di finanziamento dello stato ed i costi dei mutui e ha fatto salire i rapporti consumi/reddito. Inoltre, ha generato bolle speculative nei mercati emergenti, aumentando il costo del lavoro e della valuta.

Quegli operatori che hanno colto la palla al balzo, hanno seguito la FED come avvoltoi che puntano una mucca malata. Hanno preso in prestito a tassi ultra-bassi... e hanno comprato azioni, immobili, pezzi di arte contemporanea e debito dei mercati emergenti. Qualsiasi cosa promettesse rendimenti più elevati rispetto ai bond del Tesoro.

QE è il nome del gioco, ma ha aiutato Wall Street, non Main Street. Vi basta guardare i grafici degli indici di spedizione, i salari reali o la velocità del denaro per capirlo. Vedrete linee che scendono in basso dopo il 2008... e non tornano su.

Alla fine, avremo quasi certamente ragione circa l'andamento futuro del mercato azionario, ma potrebbe ancora volerci un pò. Il che ci porta al nostro punto di vista aggiornato, riveduto e migliorato. Sei anni fa abbiamo scritto:

"Tokyo, poi Buenos Aires."

L'idea era che l'economia americana sarebbe rimasta in modalità deleveraging per "7-10 anni"... e poi sarebbe uscita fuori strada.

Avevamo il sospetto che i federali si sarebbero stancati di Tokyo. Abbiamo pensato che sarebbero stati pronti ad una certa azione in stile America latina – un pò di salsa alla maniera della banca centrale... un pò di mambo monetario.

Abbiamo previsto che il QE non avrebbe funzionato... e che la FED sarebbe dovuta diventare più attiva – rinunciando probabilmente al QE ed intervenendo direttamente sull'offerta di moneta (cosa che le è proibita; gli effetti del QE sono limitati a rafforzare solo la base monetaria).

Che cosa abbiamo imparato negli ultimi sei anni? E' cambiato il nostro punto di vista?

La risposta a entrambe le domande è "non molto." Come abbiamo imparato nel corso degli anni, un'economia zombie fortemente indebitata non migliorerà con l'aggiunta di più debito. Invece è destinata a seguire il Giappone lungo quella strada solitaria costellata di bassi prezzi al consumo, bassa crescita e alto debito.

Questa strada porta alla distruzione finale. Ma quando? E come?

Negli Stati Uniti, come in Giappone, il QE non aiuta a stimolare una ripresa reale. Ma aiuta a simularla.

I prezzi delle case sono saliti (in parte grazie ai tassi dei mutui ultra-bassi). La classe media ha più "ricchezza" (anche se di carta) grazie agli aumenti nei suoi portfoli azionari. Anche i ricchi si sentono grassi e impertinenti.

La FED può continuare a perseguire un modesto tapering, ma è proabile che causerà una svendita nel mercato azionario. Poi la FED invertirà il tapering, ma sarà troppo tardi per correggere il danno. Il mercato azionario andrà giù per molti anni... portandoci ancora più vicino al modello giapponese.

La nostra ipotesi è che questa situazione persisterà per alcuni anni. Finché il dolore sarà tollerabile, la FED non sarà così audace da abbandonare il QE o da prendere misure più audaci.

Tokyo oggi. Tokyo domani. Dopodomani... vedremo.

Saluti,


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


venerdì 23 maggio 2014

Lo specchietto per le allodole





di Francesco Simoncelli


[Questo articolo è apparso anche sul magazine online The Fielder.]


Sono sempre più divertito dall'escalation che sta prendendo piede nel dibattito sull'inflazione vs. deflazione. Pare di essere al campetto di calcio, o di essere regrediti allo stadio di pre-adolescenza in cui si fa a botte per sostenere che la propria squadra sia la migliore dell'universo. Il campo viene diviso ed ognuna delle due squadre si prende a randellate sulla testa. Uno spettacolo curioso da vedere, soprattutto se cerchiamo intrattenimento, ma dal punto di vista economico-sociale è una disfatta della ragione. Eppure si è cercato di sottolineare più e più volte quali fossero le differenze epistemologiche di entrambi i fenomeni. Siamo d'accapo, un nuovo giro di fallacie montate su un argomento inesistente. Così si è aperta l'ennesima relazione di Mario Draghi: all'insegna del nulla. La BCE continua a sostenere il mercato obbligazionario con la sua promessa di intervento, il settore bancario commerciale accumula quanto più pattume obbligazionario statale possibile, questo tira giù i loro rendimenti, il settore bancario commerciale quindi utilizza folli rapporti di leva finanziaria per giocare d'azzardo in borsa e ottenere rendimenti soddisfacenti per i propri bilanci, e gli errori crescono a dismisura. Le vette a cui è arrivato il settore azionario fanno rabbrividire. Cosa significa? Che l'atterraggio sarà fragoroso.

Proprio in questo momento negli Stati Uniti è in atto una reflazione della bolla immobiliare, la quale è stata rigonfiata, otlre che dalla disponibilità di credito a buon mercato per gli istituti di credito, anche dall'enorme leva finanziaria con cui vengono sovvenzionati i titoli tossici. Se prima dello scoppio della bolla del 2008 le cartolarizzazioni impacchettavano caterve di mutui e venivano sponsorizzate come titoli sicurissimi, ora si stanno concentrando sui flussi di pagamento di quei poveri fessi che hanno una casa in affitto. I grandi player della finanza moderna, in combutta con i pianificatori centrali, hanno aspettato pazientemente davanti ai tribunali e hanno creato volume con tutte quelle proprietà finite all'asta. Si sono lanciati in una nuova attività: buy to rent.

Illusioni di ripresa. Il tasso dei mutui è sceso, certo, ma non appena questi grandi player tireranno la catena e usciranno "di casa," potremmo dire addio ai dolci segnali che per anni Bernanke si è sforzato di inanellare. Il mercato del lavoro è ancora a pezzi, con le unità nella forza lavoro in drastico calo: quanto ci metteranno questi poveracci a divenire impossibilitati nel pagare costantemente l'affitto? Tutto inizia con qualche "piccolo" default, per trasformarsi in una gigante supernova di fallimenti. Fioccheranno le margin call, questo è certo. E data l'interconnessione del settore bancario commerciale odierno, i guai finanziari americani ci metteranno poco a trasferirsi a quelli europei. Le banche europee, infatti, non sono in condizioni migliori. I fondamentali economici non sono più affidabili, visto che raccontano una storia diversa da quello che è la realtà. Cosa ci dice la realtà? Siamo sommersi in un coacervo di azzardo morale. I banchieri centrali vanno a tentoni. Sperimentano giorno dopo giorno.

Se non fosse così le conferenze stampa di Draghi e di Bernanke non sarebbero state così spudoratamente uguali l'un l'altra, come è accaduto negli ultimi 4 anni a questa parte. Non sanno cosa fare. Hanno inserito nel sistema una bomba a tempo pronta ad esplodere in ogni momento qualora le banche commerciali dovessero riprendere ad estendere il credito all'economia più ampia. Quando accadrà? Non lo sanno. Perché? Perché stanno aspettando una ripresa dell'economia. Come faranno a saperlo che l'economia sarà su un sentiero di sostenibilità? Ecco il punto: non lo sapranno mai. Qualsiasi ripresa che verrà sventolata davanti all'opinione pubblica sarà solamente di natura nominale, non reale. I pianificatori centrali sperano che un piccolo deleveraging del settore privato possa fare la magia. E poi? Stessa storia di prima: non si sa cosa fare.

Ci ammazzeremo dalle risate soprattutto il mese prossimo, ora che Draghi ha rimandanto ancora una volta l'implementazione di un QE; ciò ha permesso ai trader di andare long sull'EURUSD e portare più in alto il valore di cambio dell'euro nei confronti del dollaro. Un incubo per i pianificatori centrali europei, i quali si ritrovano in svantaggio nell'odierna guerra delle valute. Il mercato non tollererà un ulteriore ritardo da parte di Draghi, c'è in gioco la sua credibilità ora. La credibilità della BCE. E qui si inserisce l'attuale discorso inflazione vs. deflazione, il quale non fa altro che giustificare per l'ennesima volta agli occhi dell'opinione pubblica quanto lo stato (in realtà) abbia bisogno di liquidità a buon mercato per lenire il peso dei propri debiti.




Le entità che non creano ricchezza hanno bisogno di fondi per sopravvivere, perchè stanno prociugando voracemente il bacino della ricchezza reale tassando e sperperando le risorse che raccolgono dai popoli che governano. Tanto per cambiare, i prezzi al consumo (anche se prendiamo come riferimento il CPI europeo) non sono affatto in calo.




In questo contesto di fumo negli occhi e nebbia fitta, gli attori economici devono muoversi per condurre in un certo modo armonico i loro affari. Ogni loro azione viene ponderata con quello che hanno di fronte, ma se di frotne hanno un muro oltre il quale non è possibile orientarsi, è chiaro che molto probabilmente faranno scelte sballate. Per colpa loro? In parte. Ma soprattutto perché l'ambiente che prima utilizzavano come riferimento, è stato progressivamente invaso da incertezza e confusione. Sarà superfluo ricordarlo, ma la storia è sempre quella: i pianificatori centrali hanno spezzato il meccanismo attraverso il quale gli attori economici riuscivano a trasmettere nell'ambiente economico le informazioni vitali attraverso le quali l'ecnomia avrebbe potuto prosperare. L'ambiente presumibilmente favorevole al prestito, ad esempio, in realtà non lo è. Il mercato corre su due binari ormai: quello "ufficiale" e quello ombra.

Le forze di mercato sono la montagna che si staglia per mantenere vivo un ambiente economico funzionante attraverso le sue direzioni, la pianificazione centrale spinge affinché vengano mantenute in vita entità economicamente insostenibili. Quest'ultima è un treno che si infrangerà inevitabilmente contro l'oggetto inamovibile. Sarà un bel botto.

Le banche centrali non sono onnipotenti. Non possono dirigere con una bacchetta i dati economici. Possono manipolarli, nasconderli, torcerli, ma non possono indirizzarli come vogliono. Non hanno questo potere. Li influenzano pesantemente, ma non li obbligano a finire laddove fà loro più comodo. Le banche centrali hanno pieno potere sulla base monetaria, ma non sugli aggregati monetari più ampi. Questi ultimi sono cresciuti inesorabilmente negli ultimi anni, facendo percolare parzialmente il denaro creato da poco dai banchieri centrali. La BCE ha continuato a sostenere le azioni delle banche commerciali, è ancora il loro protettore. Basta mostrare la garanzia: bond statali. Infatti, M2 è passato dai €8,989.4 miliardi nel 2012 ai €9,282.1 miliardi a marzo di quest'anno; e la valuta in circolazione è aumentata dai €863.9 miliardi nel 2012 ai €926.3 miliardi a marzo di quest'anno. Nonostante l'ambiente "potenzialmente" favorevole, invece, i prestiti sono scesi inesorabilmente.




Oltre alla mancanza di volontà da parte delle banche commerciali di estendere nuovo credito, c'è la riluttanza degli individui stessi che preferiscono non avere debiti in un ambiente simile. La distorsione dei pianificatori centrali ha intorbidito i meccanismi di trasmissione delle informazioni economiche tanto da farli impazzire. In questo modo la velocità di circolazione del denaro è diminuita, gli individui acquistano meno prodotti per unità di tempo e con un'euro "più forte" il prezzo delle improtazioni cala. E' per questo che il CPI mostra un rallentamento. Questo significa solo una cosa: le forze di mercato stanno spingendo ancora la recessione. E' stato impedito al mercato di ripulirsi, ma esso ne ha bisogno. Quindi le forze di mercato agiscono per implementare questa soluzione. Infatti, i consumatori si sono seduti e stanno aspettando. E' una corda sottile quella su cui stanno camminando i banchieri centrali, è il vento si sta facendo sempre più forte. L'altezza è rappresentata dalla quantità di pattume accumulato finora nel mercato dei derivati: $441 bilioni. Per non parlare delle passività non finanziate degli stati mondiali.

L'attuale periodo è un lasso di tempo caratterizzato da disinflazione, crescita bassa dei prezzi, e non di deflazione; non aspettatevi, infatti, una crescita negativa dei prezzi. Quella è stata accuratamente schivata con i vari LTRO. A gennaio le banche a cui erano stati estesi tali prestiti, ne avevano ripagato circa €450 miliardi. Questo ha permesso di drenare le riserve in eccesso nell'eurozona e di sgonfiare il bilancio della BCE, rispedendo al mittente i bond statali precedentemente inglobati nel bilancio della BCE. Insomma, l'aumento farlocco di capitale per tamponare le falle di bilancio delle varie banche commerciali europee sta venendo ritirato grazie alla rinnovata fiducia germogliata a seguito del bluff di Draghi. Ma questa diminuzione delle riserve in eccesso ha fatto impazzire i tassi EONIA, segno distintivo di una chiara e crescente mancanza di fiducia nel mercato scoperto del finanziamento interbancario.




“Aggiustata” una cosa, se ne rompono due. Senza ulteriori iniezioni di vita artificiale da parte della BCE, questa situazione non farà altro che peggiorare. I debiti pubblici, senza ulteriori iniezioni di vita artificiale da parte della BCE, continueranno a peggiorare. Ogni azione sconsiderata sarà seguita da un’azione ancora più sconsiderata: la Polonia ha compiuto diversi raid nei fondi pensione, in Argentina ci sono pesanti controlli dei capitali, l’Italia sta tassando alla follia le persone, ecc. Sembra che non ci siano state conseguenze per queste misure ripugnanti. Quindi si alza l’asticella. Nessuna conseguenza (visibile)? Nessun problema. Almeno così sembra… Finirà male.