martedì 8 aprile 2014

Autodeterminazione individuale vs. Nazionalismo Ucraino o Russo, Parte II





[La prima parte di questo articolo la trovate qui.]



di Richard Ebeling


L'annessione della Crimea da parte del presidente russo Vladimir Putin ha riempito i titoli dei giornali di tutto il mondo, poiché sta tentando di invertire ciò che egli ha definito "la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo" – il crollo dell'Unione Sovietica. Ma occorre ricordare che questo conflitto ha le sue radici in due idee che hanno afflitto il mondo per oltre due secoli: il nazionalismo e l'interventismo del governo negli affari economici.

Nei primi anni del XIX secolo, la nuova idea nazionalista di autodeterminazione era considerata una logica estensione del concetto generale di libertà individuale e di libertà di scelta.


Proprio come un individuo dovrebbe avere la libertà di guidare la propria vita secondo i propri valori, credenze e ideali; proprio come dovrebbe essere libero di associarsi pacificamente con chi vuole sulla base di obiettivi condivisi o scambi reciprocamente vantaggiosi; allo stesso modo il popolo dovrebbe avere la libertà di scegliere in quale stato vivere.



Libertà e il governo sotto cui vivere

L'ideale liberale comprendeva il diritto individuale alla libertà di movimento. Cioè, se un individuo sceglieva di trasferirsi in un altro paese per vivere o lavorare, e finché restava pacifico nella sua condotta e pagava i suoi conti, allora non ci dovevano essere ostacoli giuridici che gli impedissero di migrare liberamente da una parte ad un'altra del mondo.

Così, se una persona non era d'accordo con il governo sotto cui viveva, o si considerava in qualche modo oppresso o perseguitato da sudetta autorità politica, aveva la libertà di "votare con i piedi" e trasferirsi presso una giurisdizione politica di suo gradimento.

Tuttavia, è stato anche sostenuto che le persone non dovrebbero lasciare la loro casa e paese a causa dell'oppressione di un governo tirannico. Dovrebbero essere in grado di influenzare e determinare la carica politica e, attraverso questa, le politiche attuate dal governo. Nacque così la necessità di un governo rappresentativo al posto delle monarchie assolute, le quali pretendevano di governare per "diritto divino."

È stato anche affermato, come nella Dichiarazione di Indipendenza americana, che quando un governo diventa opprimente, e dopo molti tentativi ragionevoli e pacifici di manifestare le proprie rimostranze, gli individui hanno il diritto di sostituire quel governo e formarne uno nuovo che farà rispettare i loro diritti inalienabili alla vita, alla libertà e alla proprietà acquisita onestamente. Questa fu la logica che i padri fondatori americani adottarono nella rivoluzione contro la Gran Bretagna e nel formare la propria nuova nazione e sistema politico.



Autodeterminazione e il diritto alla secessione pacifica

Ma perché gli uomini dovrebbero sopportare i costi umani e materiali del cambiamento violento, se non intendono più vivere sotto una particolare autorità politica? Così, sorse l'idea di un diritto alla secessione pacifica.

Se un gruppo di persone che ha condiviso una serie di valori e credenze comuni, o una lingua o una cultura, volesse formare il proprio paese (indipendente da quello a cui era appartenuto fino a quel momento), o si volesse unire ad un altro paese esistente tramite uno spostamento territoriale, dovrebbe essere libero di prendere tale decisione.

La premessa fondamentale di questo diritto alla secessione era da ritrovarsi nel diritto all'autodeterminazione dell'individuo. Lo spiego' con grande forza di persuasione l'economista austriaco Ludwig von Mises nel suo libro "Liberalism" (1927):

“Il diritto all'autodeterminazione, per quanto riguarda la questione della partecipazione ad uno stato, significa questo: ogni volta che gli abitanti di un determinato territorio, sia esso un villaggio, un intero quartiere o una serie di distretti adiacenti, rendono noto, mediante un plebiscito volontario, che non vogliono più rimanere in quello stato a cui sono appartenuti fino a quel momento, ma desiderano formare uno stato indipendente o trasferirsi in un altro altro stato, i loro desideri devono essere rispettati. Questo è l'unico modo per prevenire rivoluzioni e guerre civili o internazionali. . .

Il diritto all'autodeterminazione di cui parliamo, non è un diritto delle nazioni, ma piuttosto è il diritto di quegli abitanti in un territorio grande abbastanza da formare un'unità amministrativa indipendente. Se fosse possibile concedere suddetto diritto ad ogni singola persona, dovrebbe essere fatto.

Cio' non è fattibile solo a causa di considerazioni tecniche [es. forze di polizia e giustizia], le quali rendono necessario che una regione sia considerata come una singola unità amministrativa e che il diritto all'autodeterminazione sia limitato alla volontà della maggior parte degli abitanti di aree abbastanza grandi da contare come unità territoriali in grado di gestire un paese.”


Il collettivista si rivolge all'autodeterminazione nazionale

Il problema nacque tra il XIX e XX secolo quando l'idea del diritto individuale all'autodeterminazione, come spiegata da Mises, venne sostituita  dal concetto collettivista di autodeterminazione nazionale.

Cioè, l'unità del processo decisionale non era più l'individuo, ma "il popolo" definito come un gruppo nazionale che condivideva alcune caratteristiche comuni (es. linguaggio, cultura, religione, etnia o razza) e una presunta "patria nazionale" su una particolare area geografica.

Una volta insediato, il governo che rappresentava quel gruppo nazionale doveva usare la sua autorità politica per imporre l'uso di una determinata lingua, o indottrinare tutti gli abitanti di tale "stato-nazione" nei costumi e nelle tradizioni di quel gruppo nazionale attraverso la scolarizzazione, la propaganda e restrizioni all'introduzione di influenze culturali "aliene" – a prescindere dalla volontà dei singoli cittadini di quel paese, compresi quelli che avrebbero potuto costituire una minoranza linguistica o culturale.



Interventi governativi contro le minoranze nazionali

Spesso, nella storia europea, i governi nazionali hanno discriminato duramente le minoranze linguistiche, etniche o religiose all'interno dei loro confini nazionali. Vennero utilizzate procedure di regolamentazione per impedire a tali minoranze di praticare certe professioni o mestieri. Vennero imposte tasse che a parole erano definite "neutre dal punto di vista della lingua," ma che finirono per prendere di mira alcuni settori dell'economia al cui interno c'erano molti membri delle minoranze, ponendoli in una situazione di svantaggio competitivo rispetto al gruppo nazionale di maggioranza.

Gli interventi del governo nell'economia (attraverso tassazione e procedure burocratiche) hanno imposto oneri di parte sugli individui e sui gruppi linguistici, etnici e religiosi minoritari; misure quasi sempre nascoste sotto la copertura della "salvaguardia" del patrimonio culturale, linguistico o storico del gruppo nazionale di maggioranza.

Qui possiamo osservare la cosiddetta "autodeterminazione nazionale" e gli attuali dilemmi interventisti nella crisi internazionale tra Russia e Ucraina. Questa parte d'Europa non ha mai avuto la possibilità di assorbire completamente le idee "dell'Occidente" riguardo la filosofia politica dell'individualismo, della libertà personale, della proprietà privata, del rispetto dei contatti e dello stato di diritto imparziale.



Il collettivismo della Russia imperiale e sovietica

L'unico scopo del governo è quello di saccheggiare gli altri attraverso privilegi politici, favori e "connessioni" con coloro che hanno autorità, questo concetto ha pervaso la Russia sia in epoca imperiale (prima della rivoluzione bolscevica) sia in epoca comunista nei settantacinque anni di pianificazione centrale dell'economia.

Nella vecchia Russia sotto la monarchia assoluta, lo zar era il proprietario nominale di tutte le terre e delle proprietà sopra di esse. Il possesso non era un "diritto" che apparteneva all'individuo, ma un privilegio concesso dallo zar ad una persona e ai suoi eredi.

Sia il plebeo che il nobile potevano vedersi togliere dallo zar tutto ciò che possedevano se fossero caduti in disgrazia o se si fossero opposti ai desideri del sovrano assoluto. Ciò includeva anche l'esilio nelle vaste terre desolate della Siberia.

Dopo la rivoluzione comunista del 1917, tutti i terreni di proprietà privata e il capitale vennero confiscati e trasferiti al nuovo stato socialista rivoluzionario. I mezzi di produzione erano controllati e gestiti dal nuovo governo sovietico attraverso un sistema globale di pianificazione centrale – ovviamente in nome del popolo e per il suo bene.

Con il governo socialista come singolo produttore e datore di lavoro, il destino di ogni persona all'interno dell'Unione Sovietica era determinato da come egli si sarebbe inserita nel "piano" socialista di costruire un radioso futuro collettivista.



Privilegi politici nella società sovietica "senza classi"

La cosiddetta "società senza classi" dell'Unione Sovietica era un intricato sistema di potere, privilegio e controllo comandato dal Partito Comunista. Le gradazioni di privilegio permeavano tutto il sistema sovietico: assegnazioni di appartamenti, accessi speciali a negozi di alimentari e cliniche mediche, accettazione in istituti di istruzione superiore e in resort, il tutto in base alla propria posizione all'interno della struttura del partito o all'occupazione nelle diverse imprese statali.

Il sistema sovietico funzionava in base al "rango" posseduto all'interno delle gerarchie di potere. Nella struttura del Partito Comunista i subalterni versavano un "tributo" a quelli sopra di loro sotto forma di "doni" e "servizi," ricevendo, a loro volta, "favori" e vantaggi per la loro lealtà e obbedienza. Un sistema che ricordava molto quello feudale tra signori e servi della gleba.

In tale sistema il concetto di "diritto" alla vita, alla libertà e alla proprietà non aveva alcun significato. L'unica regola era quella di prendere ciò che si poteva da qualsiasi accesso privilegiato alle risorse e ai beni posseduti e prodotti dallo stato.

Ingannare, manipolare e rubare quello che si poteva era la natura della "concorrenza" nel paradiso della pianificazione centrale socialista. L'unica "regola del gioco" era quella di non farsi prendere, cercando di rimanere "nelle grazie" dei propri superiori nella struttura comunista del potere e di usare gli altri in qualsiasi modo che potesse favorire il proprio interesse personale.



Ucraina e Russia, terre di saccheggio

Questo è il lascito ereditato da chi è salito al potere nella nuova e "democratica" Ucraina, così come è accaduto anche nella Federazione russa post-sovietiva.

Ogni partito politico che sin dal 1991 ha vinto le elezioni in Ucraina, ha usato il potere dello stato per arricchire i suoi membri più importanti e coloro che hanno fornito sostegno e fedeltà in cambio di privilegi e favori vari.

L'Ucraina, come la maggior parte delle altre ex-repubbliche sovietiche, è stata una terra di abusi, corruzione ed enormi saccheggi da parte di oligarchi plutocratici e gruppi di interesse in grado di manipolare le sale interventiste del potere politico.

In Ucraina le migliaia di persone che nel febbraio scorso manifestavano contro il governo corrotto e assassino di Victor Yanukovich, hanno mostrato il desiderio, e alcuni perdendo anche la vita, di volere un paese "nuovo" e più filo-occidentale.

Eppure tra questi ucraini c'è un numero significativo di ardenti nazionalisti che è più interessato alle proprie concezioni collettiviste che ad una società più aperta e libera, in cui ogni cittadino puo' scegliere volontariamente su questioni come lingua e cultura, e puo' vivere la propria la vita così come ritiene giusto.

A questo proposito la differenza principale tra Ucraina e Russia sin dal crollo dell'Unione Sovietica, è che la Russia è un paese più grande da saccheggiare e di gran lunga peggiore nel suo autoritarismo politico sotto Vladimir Putin.

Nulla accade in Russia senza collegamenti, "spinte" e tangenti. I diritti di proprietà non hanno alcun significato – un giorno avete un'attività e quello successivo puo' essere confiscata con false accuse; poi se il proprietario è russo puo' essere imprigionato e mandato in Siberia, se invece è straniero puo' essere espulso dal paese con relativa perdita del suo investimento.

I mezzi di informazione, in particolare la radio e la televisione, sono sotto il controllo monopolistico del governo. Anche i giornali "indipendenti" ed altri punti di informazione su internet sono soggetti a gradi coscienti di auto-censura sotto la minaccia di arresti. Agli occidentali vengono revocate le varie autorizzazioni ed i visti per risiedere in Russia, se malauguratamente decidono di diffondere informazioni che in qualche modo rappresentano una sfida o una minaccia per l'attuale sistema di potere russo.

Il dissenso in strada è spesso placato con la mano pesante della polizia, e con il pericolo di ammende elevate e periodi incerti di reclusione.



I conflitti etnici all'interno della Russia

Inoltre, il governo centrale russo, quelli regionali e quelli municipali hanno trattato con dispotismo alcune minoranze etniche nella Federazione russa. Diversi gruppi musulmani nella regione montuosa del Caucaso, in particolare i ceceni, hanno tentato di ottenere l'indipendenza nazionale.

Questa situazione ha portato distruzione e migliaia di morti, poiché il governo russo sotto Putin ha cercato di schiacciare le ribellioni in quella parte del paese. In risposta, i ceceni e altri gruppi affini hanno fatto ricorso ad attacchi terroristici indiscriminati a Mosca e, più di recente, in una stazione ferroviaria a Volgograd.

In molte parti del paese i russi sono arrabbiati e spaventati. I ceceni e gli altri gruppi nella regione meridionale della Russia europea sono stati maltrattati, derubati e in alcuni casi sono stati uccisi. Nonostante il fatto che ogni cittadino russo abbia libertà di movimento e residenza entro i confini della Federazione russa, i ceceni e altri gruppi sono stati costretti ad ottenere permessi di soggiorno o addirittura sono stati espulsi da Mosca e da altre città, solo a causa della loro etnia.



Il conflitto ucraino e russo per la Crimea

A Kiev si dice che la Crimea sia parte integrante dell'Ucraina e non può distaccarsene senza l'approvazione di tutto il paese. A Mosca si dice che la Crimea rappresenti una zona storicamente importante per la Russia, e il popolo della penisola dovrebbe decidere se aderire o meno alla Federazione russa.

Il problema è che la Crimea è popolata da tre gruppi: russofoni che costituiscono quasi il 60% della popolazione, ucraini che rappresentano circa il 25% delle persone e tartari musulmani che costituiscono crica il 12% della popolazione.

Se un referendum sul futuro della Crimea dovesse chiamare alle urne tutta la popolazione dell'Ucraina, o i rappresentanti nel parlamento di Kiev, la maggioranza ucraina voterebbe senza dubbio contro. La maggioranza di russofoni in Crimea sarebbe costretta a vivere in un paese al quale non si sente di appartenere.

Qualsiasi votazione in Crimea, anche se "giusta" e sotto il controllo internazionale per impedire "irregolarità," finirebbe inevitabilmente con la vittoria della maggioranza russa e l'unificazione alla Federazione russa. Cio' forzerebbe molti ucraini e tartari ad essere cittadini di un paese (la Russia) nel quale non vorrebbero vivere.

Dopo il comportamento criminale delle bande russofone "di difesa" e quello brutale delle forze militari russe sin dalla loro "non invasione," le minoranze ucraine e tartare si sentirebbero certamente frustrate e timorose se il risultato di un referendum fosse pro-Russia.

Nel contempo, dato che un numero considerevole di russofoni in Crimea ha sostenuto il movimento per l'annessione alla Russia, se la penisola dovesse rimanere all'Ucraina il risentimento e la rabbia nei loro confronti potrebbe facilmente tradursi in una spirale di "ritorsioni," o anche l'arresto e la detenzione di alcuni di loro come "traditori" alla madrepatria ucraina.

Questi possibili esiti rispecchiano l'effetto dell'autodeterminazione pensata in termini nazionalistici e collettivisti: deve decidere la "nazione ucraina nel suo complesso," o deve decidere la maggioranza all'interno della penisola di Crimea e imporre il risultato alle minoranze etniche e linguistiche.



Una soluzione per la Crimea più in sintonia con l'autodeterminazione individuale

Quale potrebbe essere una "terza via" liberale al posto di un referendum ucraino a livello nazionale o un plebiscito inneggiante a "chi vince si prende tutto"? Una soluzione a questo dilemma, come discussa da Ludwig von Mises, prevede che ogni villaggio e città in Crimea abbia un plebiscito in cui i residenti possano decidere tra l'indipendenza, la riunificazione con la Russia, o restare con l'Ucraina.

La nuova mappa politica della Crimea assomiglierebbe molto ad una scacchiera colorata: quei villaggi o città a maggioranza ucraina e tartara, sarebbero dello stesso colore dell'Ucraina; altre porzioni della Crimea, forse gran parte della penisola, sarebbero dello stesso colore della Russia; e alcune aree sarebbero di un colore diverso da quello dell'Ucraina o della Russia, se in quei distretti o città la maggioranza optasse per formare un governo separato.

Le minoranze etniche o linguistiche sarebbero sollevate dal disagio continuo di trovarsi circondate da una maggioranza di persone che parla una lingua diversa o pratica diversi costumi? Scomparirebbero discriminazione politica o favoritismo della maggioranza se venisse utilizzato il potere dello stato? Purtroppo, la risposta è solo una: "No."

Finché la gente crederà che regolamentare il commencio e l'industria, redistribuire la ricchezza e interferire nella libera associazione delle persone sia dovere e responsabilità del governo, il potere politico verrà usato a beneficio di alcuni e a spese di altri.

Ma un sistema di plebiscito locale nel determinare la formazione dei governi e dei confini delle entità politiche, darebbe ad ogni individuo più peso nel decidere il proprio futuro rispetto a quando è perso nella grande massa di persone del moderno stato-nazione. E come minimo tenderebbe a minimizzare il numero di persone che potrebbero trovarsi ad essere una minoranza etnica o linguistica.

Il fatto che alcune delle aree appartenenti ad una certa autorità politica potrebbero non essere contigue, ma separate da territori di altri paesi, non dovrebbe essere considerato un problema se tra di loro esiste un minimo di libertà di circolazione e di libero scambio. Un risultato particolarmente illuminante dell'Unione Europea è stata l'abolizione dei controlli alle frontiere, così la gente può muoversi liberamente tra i paesi membri (come fanno gli americani tra i vari stati degli Stati Uniti).

Se un metodo più liberale venisse applicato ovunque per risolvere questi tipi di controversie, allora i confini statali e le frontiere politiche non sarebbero più determinate dal sangue e dalla conquista, ma dalle scelte delle stesse persone che risiedono in tali aree.

Inoltre, potrebbero essere oggetto di revisione al cambiamento della demografia e delle preferenze delle persone. Un plebiscito potrebbe essere tenuto una volta ogni dieci o venti anni, come formalità. Oppure potrebbe essere tenuto ogni volta che, per esempio, i due terzi della popolazione in una zona presentino una petizione per indire un tale plebiscito.

Tale modo di definire i confini delle entità politiche non implica necessariamente il nazionalismo esclusivista. Gli abitanti di alcune regioni, città o distretti potrebbero voler formare stati separati o unirsi a quelli più grandi (multi-etnici, multi-linguistici e culturalmente diversi). Inoltre, nella misura in cui c'è libertà di movimento e di commercio, tutti possono trarre vantaggio dalla diversità della cultura mondiale e da una divisione del lavoro internazionale.



L'ideale dell'autodeterminazione individualista per il futuro

Purtroppo tante persone ed i loro governi non sono pronti per un tale sistema di tolleranza e rispetto nello stabilire gli affari politici e le linee di confine. Troppi ancora sostengono il punto di vista collettivista secondo cui il gruppo o la tribù possiede l'intero territorio di uno stato-nazione, compresi coloro che vivono, lavorano e muoiono al suo interno.

Ma possiamo desiderare che dopo un certo numero di guerre e campagne di terrorismo contro gli innocenti, le persone possano finalmente riuscire a vedere l'importanza e il valore del rispetto dei diritti e delle scelte degli altri individui con i quali vivono in questo mondo travagliato.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


6 commenti:

  1. applicare il principio alla regione? provincia? cita? villaggio? qual è la dimensione territoriale esatta della secessione? ed "esatta" in base a cosa? all utilità? e perché non applicarla al singolo? sai che belle le secessioni individuali…

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    1. Ciao gdb.

      Più c'è frammentazione, più è possibile guadagnare in libertà. Non solo, ma è proprio il processo di secessione individuale che consente alla società nel suo complesso di distaccarsi dai dogmi collettivisti. Pensare per aggregati non è la soluzione, perché il cuore della società non è altro che la sua singola unità: l'individuo. Qualsiasi aggregato è il risultato dell'accordo di determinate unità a perseguire lo stesso fine. La secessione, quindi, non è altro che la necessità di un gruppo di individui che intendono dividersi dal resto di un altro gruppo, per singola volontà. Gli esempi portati da Mises in Liberalism ci ricordano di come la cooperazione umana sia un processo tanto spontaneo quando obbligato per l'uomo, soprattutto ai fini della sua sopravvivenza.

      Nello stesso libro scrive: "Senza la proprietà privata, non c'è mai stata una persona che abbia migliorato se stessa al di sopra di una condizione di miseria e barbarie animale." Oggi, in Italia, il livello di tassazione intacca seriamente la proprietà privata, ma nel resto del mondo la cosa non è tanto diversa. E questo è stato vero sin dall'approvazione dell'imposta sui redditi. Mises non fa altro che suggerirci che abbiamo una possibilità di progredire, e che l'attuale sistema statale non è affatto l'apice del nostro progresso. Forse diamo per scontato il fatto che il governo debba esistere in quanto non ci possiamo fare niente. In tal modo evitiamo complicazioni nella nostra vita; ma facendo così ci sminuiamo. Se pensiamo di trasformare la forma di base del governo, allora dobbiamo impegnarci in una attività che tendiamo a evitare. Se avessimo la scelta tra sistemi di governo, e non solo tra politici ad una data forma di governo, presteremmo molta più attenzione alle questioni dei modi di governabilità.

      Ovviamente nessuno puo' avere una mappa precisa su come debba essere stabilita l'autodeterminazione, ma il primo passo è sicuramente abbandonare credenze erronee. Una delle quali, ad esempio, vuole che un governo debba controllare una vsta area. Non è così. L'attuale ripartizione delle contee negli US ci dà prova del contrario. Infatti, ognuna di esse comprende in media 4/5 grandi centrai urbani e diverse città intermedie, ognuna delle quali ha un insieme di sistemi diversi per quanto riguarda la gestione dei parchi, delle scuole, della rete fognaria, della polizia, ecc.

      Questa è la nostra unica via d'uscita.

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  2. ho immaginato una distinzione tra polis e terre circostanti, con confini più fluidi e rette da una sorta di dritto comune (come ai vecchi tempi… ). il paradosso ella controsecessione fa venire in mente 2 cose: 1.meglio è peggio che bene, per cui la crimea è meglio dell ucraina, senza dover iperspezzettare. 2. è comunque rilevante la questione della quantità del potere, anzi dei rigorosi limiti. altrimenti assisteremo a continue secessioni. è ovvio che siamo su terreni da scoprire

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    1. E' certamente vero che siamo su terreni da scoprire, il che non viene reso facile dalla continua propaganda statalista/collettivista. Ma credo che l'idea della polis abbia un solido fondamento nel discorso che stiamo portando avanti. Lo stesso Aristotele, quando scrisse sulla polis, non pensava allo stato ma ad una comunità ristretta che partecipava attivamente. Ad esempio, ad Atene (eccetto casi rari) i cosiddetti "rappresentati" non si eleggevano, bensì di estraevano a sorte. Qualcuno ha definito intuitivamente la polis come una face-to-face society e per i greci la figura del politico ha sempre significato questo: all'interno dell'ambito ristretto e controllabile della cittá.

      Insomma: piccole comunitá tendenzialmente autosuffcienti. Erano anarchici senza saperlo. Per tutto il resto possiamo fare riferimento a Hoppe: The Advantages of Small States and the Dangers of Centralization.

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  3. Nel frattempo c'è una protesta che va avanti in uno dei silenzi più imbarazzanti: Tibet: ancora una immolazione.

    I sedicenti libertari che si stanno scannando sulla vicenda ucraina hanno perso di vista il quadro generale, abbandonandosi a sciocche discussioni su quale impero supportare. Divide et impera. Allora mi chiedo, in riferimento alla notizia qui sopra, dov'è la Nato? E Obama? E Putin? E il premio Nobel dei miei fottutissimi zebedei Unione Europea? Questi sono melma, fango, e trascineranno a fondo chiunque si schieri dalla loro parte.

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  4. I diritti umani, lo sappiamo, sono usati come strumento di propaganda per aggredire gli avversari. Dei bambini libici o siriani o palestinesi o ... non importa a nessuno. Solo propaganda.
    Cmq spero che tra minacce, provocazioni, sanzioni e ritorsioni reciproche, i superpazzi si fermino prima dell'irreparabile.
    Agl USA e' sufficiente che la Merkel abbia capito l'antifona e torni nei ranghi della dipendenza.

    La cosa che noto leggendo qua e la' e' che diversa gente nei siti economicofinanziari inneggia a Putin grande capo tradizionalista. Come dire: la nave affonda, lotto per la scialuppa, ma poi raggiungo la terra dei cannibali. Che proporrebbe la teoria dei giochi?

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