sabato 29 gennaio 2011

L'Arte del Non Essere Governati

Ottima recensione di Jeff Riggenbach che attraverso la sua analisi del libro "The Art of Not Being Governed" di J.C. Scott ci porta a scoprire, nei secoli della storia, come le persone si sono difese dall'aggressione soffocante dello Stato. Una possibilità reale, fino a pochi secoli or sono, di essere in grado di sfuggire ad una prigionia sicura e trovare conforto in zone prive di monopolio della violenza; formando così un auto-governo. Cosa fondamentale, Riggenbach ci porta a riflettere su un aspetto spesso confuso e frainteso: la differenza tra Stato e governo.
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di Jeff Riggenbach


[Trascritto dal Libertarian Tradition podcast, episodio: "L'arte del Non Essere Governati".]


Suppongo che parte del mio lavoro qui è di richiamare l'attenzione sui nuovi libri che si rifanno in qualche modo alla tradizione libertaria — ovvero alla storia del pensiero libertario. Un simile libro fu inizialmente pubblicato circa un'anno fà nel settembre 2009 dalla Yale University Press. E' stato solo ora — novembre 2010 — scoperto in una edizione cartacea col 30% di sconto. E' un lavoro di James C. Scott, un professore di scienze politiche ed antropologia a Yale ed il suo titolo è L'Arte del Non Essere Governati: Una Storia Anarchica delle Colline del Sud-Est Asiatico.

Eccezzion fatta per una recensione molto intelligente uscita in precedenza quest'anno su Reason, questo libro sembra non aver attratto alcuna attenzione da parte dei libertari. Tuttavia questo è un libro che i libertari con un'entusiasmante senso per la storia troveranno molto ma molto interessante — probabilmente non tanto per la sua discussione estremamente illuminante della storia del sud-est Asiatico, ma per le sue ancora più illuminanti osservazioni generali sul ruolo dello Stato nella storia umana.

"Fino a poco tempo prima l'era comune" scrive Scott, secondo cui c'è da dire che si tratta degli ultimi 2000 anni "costituita dal solo 1% della storia umana, il panorama sociale era costituito da forme elementari di auto-governo concernenti unità di consanguinei che, occasionalmente, avrebbero potuto cooperare nella caccia, nei festeggiamenti, nel combattimento, nel commercio e nella riappacificazione. Non ha contenuto nulla di ciò che uno potrebbe chiamare Stato. In altre parole vivere in assenza di strutture Stato è stata la condizione standard umana".

Secondo Scott la storia mondiale potrebbe essere divisa in:
«quattro ere:
  1. un'era senza Stato (la più lunga);
  2. un'era di Stati su piccola scala circondati da vaste e facilmente raggiungibili periferie prove di Stato;
  3. un periodo in cui queste periferie sono ridotte ed assediate dall'espansione del potere statale; ed infine
  4. un'era in cui praticamente l'intero globo è "uno spazio amministrato" e la periferia non è niente di più che un residuo folkloristico.
La progressione da un'era a quella successiva è stata molto irregolare geograficamente (la Cina e l'Europa sono state più precoci del, diciamo, sud-est Asiatico e dell'Africa) e temporalmente (con periferie che crescevano e si restringevano in dipendenza dai capricci dei creatori degli Stati). Ma sulla tendenza a lungo termine non ci può essere uno straccio di dubbio.»


Senza sorpresa Scott pensa che l'importanza dello Stato è di solito sopravvalutata da parte degli storici:
«I primi Stati in Cina ed Egitto — e successivamente in India, nella Grecia classica e nella Roma repubblicana — erano, in termini demografici, insignificanti. Occupavano una minuscola porzione del panorama mondiale ed i loro sottomessi erano niente più che un'errore marginale nelle cifre della popolazione mondiale. Nel sud-est Asiatico continentale, dove i primi Stati sono apparsi solo intorno al primo millennio dell'era comune [circa 1500 anni fà], i loro segni sul panorama e le loro persone sono relativamente trascurabili quando comparati con il loro enorme spazio occupato nei libri di storia. Piccoli centri, affossati e cintati da mura insieme ai loro villaggi tributari, questi piccoli nodi di gerarchie e potere erano sia instabili sia geograficamente confinati. Ad un occhio non ancora ipnotizzato dai resti archeologici e dalle storie incentrate sullo Stato, il panorama sarebbe sembrato praticamente tutta periferia e non centri. Quasi tutta la popolazione ed il territorio erano al di fuori delle loro ambizioni.»


Ognuno di questi primi Stati, secondo Scott, era:
«un accumunatore di persone precedentemente prive di Stato. Alcuni soggetti erano senza dubbio attratti da possibilità di commercio, ricchezza e status sociale dipsonibili alla corte dei centri, mentre gli altri, quasi sicuramente la maggioranza, erano prigionieri e schiavi catturati durante una guerra o acquistati dagli schiavisti. La vasta periferia "barbara" di questi piccoli Stati era [...] la fonte di centinaia di scambi commerciali necessari alla prosperità dello [...] Stato [...] (come anche) la più importante fonte d'attività commerciale in circolazione: i prigionieri umani che formavano il capitale lavorativo di qualsiasi Stato di successo. Quello che sappiamo dei classici Stati come l'Egitto, la Grecia e Roma, ma anche come i primi Stati Thailandesi e Birmani, suggerisce che la maggior parte dei loro cittadini era formalmente non libera: schiavi, prigionieri e loro discendenti.»


Quella "vasta periferia barbara" che circondava ognuno di questi primi Stati era anche un posto in cui le vittime dello Stato potevano fuggire in cerca di una maggiore libertà. Come Scott fa notare lo "spazio di non-Stato" oltra la frontiera "operava come un ruvido e pronto meccanismo omeostatico; più uno Stato pressava i suoi cittadini, meno cittadini aveva. La frontiera sottoscriveva la libertà popolare". Scott usa il termine "spazio di non-Stato" per riferirsi a "luoghi dove, determinati in gran parte da ostacoli geografici, lo Stato ha particolare difficoltà a stabilire e mantenere la sua autorità". Storicamente Scott sostiene: "è un terreno difficile o inaccessibile, senza badare all'altezza, che presenta grandi ostacoli al controllo dello Stato" ed è in questo terreno difficile ed inaccessibile che lo spazio di non-Stato è stato di solito situato. E come Scott enfatizza: "posti simili sono serviti come un porto sicuro per persone che opponevano resistenza o fuggivano dallo Stato".

Scott osserva che:
«sin dal 1945, ed in alcuni casi anche prima, il potere dello Stato di dispiegare tecnologie che annullavano le distanze — ferrovie, strade, telefoni, telegrafi, potenza aerea, elicotteri ed ora informazione tecnologica — ha così cambiato il bilancio strategico del potere tra le persone che si auto-governavano e gli Stati-nazioni, ha così diminuito le frazioni di terreno, che la mia analisi cessa di gran lunga di essere utile.»


Ma rimarca che:
«evitare lo Stato era, fino ai pochi secoli passati, un'opzione reale. Mille anni fa la maggior parte delle persone viveva al di fuori delle strutture dello Stato, sotto imperi di ampia unità o in situazioni di sovranità frammentata. Oggi è un'opzione che sta velocemente scomparendo.»


Ovviamente gli Stati lavorano per scoraggiare i loro cittadini dal fuggire verso l'entroterra dove l'aggancio dello Stato è indebolito dal terreno difficile. Un metodo che usavano era la propaganda. Come Scott scrive: "la storia ufficiale che la maggior parte delle civiltà raccontava su sè stesse" riguarda quasi invariabilmente "persone arretrate, ingenue e forse barbare" ovvero "gradualmente incorporate in una avanzata, superiore e più prospera società e cultura". Infatti egli sottolinea: "barabro infatti era un'altra parola che gli Stati usavano per descrivere qualsiasi persona che si auto-governava e non era sottomessa". Tuttavia: "molti di questi barbari non governati aveva, in un periodo o in un altro, votato, come scelta politica, di prendere le proprie distanze dallo Stato" e di vivere invece in una società senza Stato in cui:
«la loro sussistenza, la loro organizzazione sociale [...] e molti elementi della loro cultura [...] erano prosperosamente creati sia per ostacolare l'incorporazione nei vicini Stati sia per minimizzare la probabilità che concentrazioni di potere simili a quelle dello Stato si sollevassero tra di loro. L'evasione dallo Stato e la prevenzione da esso permeava le loro pratiche e, spesso, anche la loro ideologia.»


Un altro modo di dire ciò potrebbe essere che centri densamente popolati e commercialmente prosperosi, dove la civiltà esiste nella sua forma più avanzata, sono di solito catturati da uno Stato di qualche tipo prima che siano stati centri densamente popolati e commercialmente prosperosi per molto tempo. Lo stesso potrebbe essere detto dei paesi contadini più popolati e più prosperosi. In effetti, ironicamente, lo Stato è il prezzo della civilizzazione — non perchè, come gli statalisti credono, lo Stato è necessario per salvaguardare o proteggere il cittadino, ma piuttosto perchè è lo Stato che si attacca alla civilizzazione come una saguisuga o una tenia, poichè le società più civilizzate sono le più ricche e le più redditizie da saccheggiare. Se volete vivere in un posto civilizzato, probabilmente dovreste sopportare lo Stato. Davanti questo dilemma ci sono state parecchie persone che hanno deciso di andarsene dalla civiltà e di conseguenza scappare dallo Stato piuttosto che stare nella civiltà e tentare di riformare o abolire lo Stato.

Ovviamente, come fa notare Scott, nella propaganda iniziale dello Stato contro un qualsiasi abbandono della civilizzazione: "la connessione tra l'essere civilizzati ed essere un sottomesso dello Stato è [...] data per scontata". Ed infinite generazioni di storici hanno seguito la strada dei primi intellettuali dello Stato e gioiosamente "hanno confuso la civilizzazione con quello che era, di fatto, la creazione dello Stato". Come risultato, dice Scott, ci troviamo oggi con una "enorme letteratura sulla creazione dello Stato, contemporanea e storica, [che] non presta praticamente attenzione al suo contrario: la storia di coloro che intenzionalmente e reattivamente hanno vissuto senza Stato. Questa è la storia di coloro che se ne sono andati".

Scott comprende che un lettore del ventunesimo secolo in America potrebbe ben considerare la sua discussione con una certa incredulità:
«In un tempo in cui lo Stato sembra invasivo ed inevitabile, è facile dimenticare che per molto tempo nella storia vivere dentro o fuori lo Stato — o in una zona intermedia — era una scelta, che poteva essere rivista se le circostanze lo avessero giustificato. Il centro di uno Stato ricco e pacifico avrebbe potuto attrarre una popolazione in crescita che trova questi vantaggi remunerativi.»


Tuttavia "sembra che molta, se non la gran parte, della popolazione dei primi Stati non era libera; erano dei sottomessi sotto costrizione". E "era pratica comune dei sottomessi dello Stato scappare". Poichè "vivere dentro lo Stato significava, praticamente per definizione, tasse, coscrizione, lavoro forzato" — ovvero lavoro forzato, non pagato, a breve termine, come quello richiesto per lavorare un giorno o due non pagati in un gruppo per riparare una strada — "e, nella maggior parte dei casi, una condizione di schiavitù":
«Così lo Stato iniziale faceva uscire la popolazione tanto facilmente quanto la assorbiva e quando, come era spesso il caso, collassava del tutto come risultato di una guerra, di una siccità, di una epidemia o di un conflitto civile per la successione, la sua popolazione era fatta fuoriuscire. Gli Stati non erano affatto una creazione definitiva. Innumerevoli resti archeologici dei centri statali che prosperarono brevemente e furono eclissati dalla guerra, dalle epidemie, dalla carestia o dal collasso ecologico rappresentano una lunga storia della formazione dello Stato ed il suo collasso piuttosto che la sua permanenza. Per lunghi periodi le persone si sono mosse dentro e fuori lo Stato e "l'assenza di Stato" era, di per sé, spesso ciclica e reversibile.»


Ovviamente non furono solo la carestia, le epidemie e le lotte interne per il potere politico che fecero crollare questi fragili Stati primitivi. Molto spesso era l'avidità. Come Scott osserva: "ci si potrebbe aspettare che l'arte di governare consistesse nel veleggiare tanto vicino al vento quanto si potesse: ovvero estrarre risorse fino ad arrivare vicino al punto dove si sarebbe provocata una fuga o una ribellione. [...] [C]iò sarebbe la strategia più ragionevole". Ma non era la strategia che effettivamente perseguiva la maggior parte di questi Stati primitivi.

Per esempio i primi governanti dell'Asia sud-orientale sapevano che:
«la capacità fiscale della poplazione variava ampiamente, come sarebbe accaduto in qualsiasi economia agraria, da stagione a stagione in dipendenza dalle fluttuazioni dei raccolti dovute al clima, alle pesti ed alle malattie del raccolto stesso. Anche il furto ed il brigantaggio potevano essere un fattore qui: concentrati al di sopra del terreno i raccolti di grano erano una grande tentazione sia per le bande di ladri, i ribelli o regni rivali sia per lo Stato. Permettere una grande variazione nella capacità dei coltivatori di pagare anno dopo anno avrebbe richiesto alla corona di sacrificare le sue richieste fiscali per il benessere della sua classe contadina. Tutte le circostanze suggeriscono che, al contrario, gli Stati coloniali e pre-coloniali hanno provato a garantire a se stessi un prendere regolare, a spese dei loro sottomessi. [...]
[D]ata una scelta tra due sentieri di sussistenza dove il primo è relativamente sfavorevole per il coltivatore ma che rende un maggiore ricavo in manodopera o grano allo Stato ed il secondo che dà benefici al coltivatore ma toglie allo Stato, il governante sceglierà ogni volta il primo. Il governante poi massimizza l'accessibilità dello Stato al prodotto, se necessario, a spese della ricchezza generale del reame e dei suoi sottomessi.»

Finchè anche lo Stato di maggiore successo fosse stato adiacente ad aree che non poteva controllare, le persone oppresse avrebbero ancora avuto un posto dove andare. "Almeno fino al primo diciannovesimo secolo", scrive Scott, "le difficoltà del trasporto, lo stato della tecnologia militare e, soprattutto, le realtà demogrfiche hanno piazzato chiari limiti alle ambizioni dello Stato più ambizioso". Nell'Asia sud-orientale, per esempio, nel 1600 la densità della popolazione era "solo di 5,5 persone per chilomentro quadrato [...] (comparata con le 35 dell'India e della Cina)", cosicché i sottomessi dei governanti nell'Asia sud-orientale "avessero relativamente facile accesso ad una frontiera vasta e ricca di terreni". E proprio oltre questa frontiera c'erano gli altopiani, le regioni montuose e le colline, "un'area abbastanza grande come l'Europa" che Scott, in comune con un numero crescente di storici e scienziati sociali, chiama "Zomia":
«Zomia è praticamente un nuovo nome per tutte le terre al di sopra dei, all'incirca, trecento metri, dalle Regioni Montuose Centrali del Vietnam all'India nord-orientale ed attraversante cinque nazioni dell'Asia sud-orientale (Vietnam, Cambogia, Laos, Thailandia e Birmania) e quattro provincie della Cina. [...] Un'estensione di 2,5 milioni di chilometri quadrati contenenti circa cento milioni [...] di persone [...] alla periferia di nove Stati.»


La Zomia è, ci dice Scott, "uno dei più ampi spazi di non-Stato rimanenti nel mondo, se non il più ampio". Infatti dice Scott: "Il carattere peculiare della Zomia [...] è che è relativamente priva di Stato. Storicamente, ovviamente, ha avuto Stati sulle sue colline" ma "mentre i progetti dei creatori dello Stato sono abbondati [lì], è giusto dire che pochi si sono realizzati" e "quei reami in potenza che hanno provato a resistere alle condizioni avverse, lo hanno fatto solo per un periodo relativamente breve e pieno di crisi".

Gli insediamenti umani che hanno creato la Zomia, dice Scott, sono "meglio compresi come scappatoie, comunità [...] fuggitive che sono, nel corso di due millenni, evase dalle oppressioni dei progetti redatti dai creatori dello Stato nelle valli — schiavitù, coscrizione, tasse, lavoro forzato, epidemie e guerre".

E non dovrebbe sorprendere nessuno, egli scrive, che:
«effettivemente tutto quello che riguardava i mezzi di sussistenza di queste persone, l'organizzazione sociale, le ideologie e [...] anche le loro ampie culture orali, può essere considerato come una scelta strategica progettata per mantenere lo Stato a distanza [...] per evitare l'incorporamento negli Stati ed impedire che gli Stati si fossero creati tra di loro.»


Per esempio i residenti della Zomia praticano caratteristicamente ciò che Scott chiama "l'agricoltura evasiva: forme di coltivazione progettate per ostacolare l'appropriazione statale". E "la loro struttura sociale poteva onestamente essere chiamata struttura sociale evasiva, in quanto era progettata per aiutare la dispersione, l'autonomia e la respinta della subordinazione politica". Se volessimo comprendere le tradizioni, di più, ed il comportamento di queste persone, insiste Scott, dovremmo iniziare a riconoscere che "gli abitanti di questa zona vennero, o rimasero, qui perchè essa restava al di là del raggiungimento da parte dello Stato".

Ciò non vuol dire, ovviamente, che le loro società decentralizzate mancassero di un qualsiasi ordine coerente. Scott scrive, infatti, del suo desiderio di "tentare di tenere conto delle unità elementari dell'ordine politico nel continente dell'Asia sud-orientale" e poi commenta: "Sottolineo il termine ordine politico per evitare di trasmettere l'impressione errata che al di fuori del reame dello Stato ci sia solamente disordine". Ed uno dei punti chiave che egli sottolinea delle "unità elementari dell'ordine politico" è quello che ha trovato tra le persone degli altopiani dell'Asia sud-orientale, ovvero:
«Le loro strutture politiche sono, con rare eccezioni, imitazioni nel senso che mentre possono avere i finimenti e la retorica della monarchia, sono prive della sostanza: una popolazione soggetta alla tassazione o al controllo diretto sulle sue unità costituenti, per non parlare dell'esercito permanente.»


Un modo più semplice di dire ciò sarebbe dire, usando la terminologia di Albert Jay Nock, che le persone degli altopiani dell'Asia sud-orientale hanno un governo, ma non uno Stato. "Andando indietro seguendo la linea della civilizzazione", come scrisse Nock ne 1935:
«essa presenta fondamentalmente due tipi diversi di organizzazione politica. Questa differenza non è per livello, ma per tipo. Non significa solamente prendere uno di questi e considerarlo come un'ordine civile involuto e l'altro evoluto; sono comunemente presi così, ma erroneamente. Classificare entrambi come specie dello stesso gene, ha ancora poco a che fare con la realtà — classifircarli entrambi sotto il nome generico di "governo", sebbene ciò è stato sempre fatto, ha sempre condotto ad una confusione e ad un fraintendimento.»


L'origine del governo, diceva Nock:
«è la comprensione comune ed il comune accordo della società; [...] Il [g]overno mette in pratica il comune desiderio della società, primo, per la libertà, e secondo, per la sicurezza. Oltre di ciò non va; non contempla alcun intervento concreto sull'individuo, ma solo un intervento passivo.»


Nock credeva che:
«il codice del governo sarebbe dovuto essere quello del leggendario re Pausole, che prescrisse solo due leggi per i suoi sudditi, la prima, Non fare del male a nessun uomo, e la seconda, Poi fa come vuoi; e [...] l'unico interesse del governo dovrebbe essere quello puramente passivo di vedere questo codice messo in atto.»


Al contrario, Nock diceva che lo Stato:
«non si originò dalla comune comprensione ed dall'accordo nella società; si originò dalla conquista e dalla confisca. La sua intenzione, lontana dal contemplare la "libertà e la sicurezza", non contemplava niente del genere. Contemplava principalmente lo sfruttamento economico continuo di una classe su un'altra e si preoccupava della libertà e della sicurezza in coerenza con questa intenzione principale; ovvero molto poco. La sua funzione primaria o esercizio non era mediante [...] interventi puramente passivi sull'individuo, ma mediante innumerevoli e molto onerosi interventi concreti, tutti allo scopo di mantenere la stratificazione della società in una classe sfruttatrice e proprietaria ed un'altra dipendente e senza proprietà. L'ordine di interesse che è riflesso non è sociale, ma puramente antisociale; e coloro che lo amministrano, giudicati dal comune senso dell'etica o perfino dal comune senso della legge applicata alle persone, sono indistinguibili da una classe professionista di criminali.»


Tuttavia James C. Scott, non solo nel suo discorso dei profughi dello Stato che vivono in Zomia ma anche nelle sue riflessioni generali sulla storia dello Stato nella società umana, non fa alcuna distinzione tra il governo e lo Stato. Per metà del tempo si riferisce ai Zomiani ed alle loro controparti in altre aree del mondo ed in altre ere della storia mondiale come "non governati". Per l'altra metà del tempo si riferisce a questi stessi gruppi di individui come "persone che si auto-governano". Ma, ovviamente, se veramente si "auto-governano" non sono "non governati". Governano loro stessi. Non stanno praticando "l'arte del non essere governati"; stanno praticando l'arte del non essere controllati.

Ciò potrebbe sembrare solamente cavilloso, ma come Nock, penso che sia un'importante distinzione — una distinzione che se non è presa in considerazione porterà a confusione e fraintendimento. Se Scott può criticare la maggior parte dei suoi colleghi storici che confondono "civiltà" con "fautori dello Stato", egli stesso può essere criticato per aver confuso assenza di Stato com mancanza di governo, in particolare quando è chiaro dal suo stesso testo che egli ha catturato la differenza — e la differenza che fa.

The Art of Not Being Governed: An Anarchist History of Upland Southeast Asia di James C. Scott, è pubblicato in rilegatura ed ora in versione cartacea dalla Yale University Press. Nonostante i suoi difetti, è un lavoro fenomenale e magnificamente profondo.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


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