mercoledì 24 novembre 2010

Videogiochi e statalismo: Una giornata da sindaco (virtuale) keynesiano...


Sull'onda dell'articolo su Caesar III e la pianificazione centrale, pubblico questa interessante riflessione esposta da Luca Fusari.

Un'addendum utile e costruttivo che inquadra più approfonditamente il problema insito nella pianificazione riproposta in modo "innocentemente" ludico nei videogiochi.

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di Luca Fusari

A conferma dell'articolo di Mattheus Von Guttemberg pubblicato e tradotto da Francesco Simoncelli ( http://francescosimoncelli.blogspot.it/2010/11/caesar-iii-e-lonnipresente-fallimento.html ) i videogiochi di pianificazione centrale sono alquanto irrealistici e costruttivistici nella loro visione delle cose eppure nonostante tutto sono divertenti e addirittura nonostante tutto pure educativi (seppur in termini ben diversi da quanto i programmatori o gli ammiratori del socialismo intendono).

Di fatto i videogiochi strategici o gestionali sono la rappresentazione di una utopia, la visione del deus ex machina onniscente e pianificatore che controlla tutto e che ottiene dati in tempo reale su tutto quanto dai suoi sottoposti o agenti, in essi manca (forse per via dei programmatori) una vera descrizione della funzione del governante e delle sue ragioni.

Nella realtà la pianificazione centrale non può funzionare come Mises ha ben spiegato nei suoi libri (Socialism e Human Action anzitutto).

Il controllo pianificato e centrale dei prezzi e dei costi ci porta inevitabilmente a un sistema che sottovaluta le esigenze e le richieste reali degli individui.

Nei videogiochi non esistono quasi mai realtà astatuali o privi di governance (a parte videogiochi interessanti quali Spore, sempre di Wright o Sim city societies quest'ultimo non ideato da Will Wright a differenza del nome, e forse anche per questo ampiamente bistrattato dal pubblico nonostante l'idea di fondo sia completamente differente dalle solite dinamiche presenti nel più famoso simulatore di città della storia dei videogiochi) dove si possano realizzare modelli privi di funzione politica specifica (anche di tipo anarco-capitalista).

Esiste sempre unl ruolo partecipe e attivo del videogiocatore, ed è a lui richiesta una interazione che necessariamente comporta la presenza attiva nel processo decisionale da far compiere all'intera comunità.

Non va meglio in Civilization (io sono rimasto alla versione anzianotta della III, ma penso che Luca Bocci mi possa confermare come non cambi di molto la dinamica nella V) il tipo di "governo" deciso come anarchia non differisce come logiche dagli altri (curiosa la cosa...) e di fatto il livello promosso in tale modalità è una visione puramente hobbesiana di caos e improduttività che tende ad essere in perdita anzichè come guadagno di bonus e punti di ricerca e di fatto è visto solo come una seccatura a fronte del passaggio da una dittatura repubblicana a una democratica o a una dispotica alla ricerca della conquista diplomatica, militare o culturale sugli sfidanti.

Ci sarebbe da chiedere ai programmatori quanto tali videogiochi gestionali siano per loro la rappresentazione virtuale immaginaria di una società impossibile da realizzarsi fuori dal web come pianificazione centrale o quanto invece tale società sia da loro auspicata e magari promossa implicitamente come funzione ideologica inconscia e indotta nei giovani.

Ovvio che questo andrebbe ad aprire l'annosa questione della propaganda nei videogiochi e mi pare del tutto evidente che tale questione la si risolva nella libera consapevolezza dei fruitori.

Io posso benissimo giocare alla serie Total War invadendo territori e imponendo tasse militari come finzione funzionale allo scopo di massimizzare la resa del mio divertimento nel videogioco con gli eserciti in campo.

La virtualità mi permette di farlo senza ledere il diritto di nessuno, esattamente come potrei sterminare ondate di soldati o di mostri virtuali entro qualche arena virtuale di fraggatori.

Questo esula completamente da ciò che poi penso o ritengo sia giusto compiere e attuare invece in un dato reale dato che la dimensione del videogioco è eidetica.

Il videogioco è un passatempo da tenere e valutare in separata sede come funzione di giudizio rispetto a quello del mondo reale.

Il videogioco al pari della musica, della letteratura è un'arte e come tale è al di là del giudizio morale.

Certo con l'avanzare della tecnologia, dei giochi di ruolo online e dei simulatori di società parallela come Second Life i sociologi e i soliti tromboni dell'intellighenzia sinistrata direbbero che pure internet e il web stanno ormai superando quel limite di divisione tra reale e virtuale e quindi a loro avviso tra uno scopo utile e produttivistico e uno futile di disimpegno.

Ma ciò che non comprendono nella loro avversione alla tecnologia di matrice luddista-francofortese è che la funzione è differente.

Un videogioco può essere usato come social-network (si pensi a World of Wacraft) ma un social-network non è essenzialmente un videogioco, benchè pure questo social-network siano presenti al suo interno parecchi giochini, resta dal mio punto di vista anzitutto uno strumento di comunicazione.

Vedere in uno strumento di comunicazione necessariamente una maschera con cui abbellire qualsiasi mia esigenza teatrale è una visione che dimostra la difficoltà da parte di questi sociologi nel valutare o comprendere le funzioni della tecnologia e della comunicazione in sè.

La loro disamina pecca per riduzionismo omologante dei mezzi utilizzati.

Il social-network o un sito web (a meno che non vogli fare saltuariamente un troll) è un mezzo dalla funzione predominante di comunicazione esattamente come il cellulare o la lettera cartacea.

Il videogioco è un contesto differente dove le regole reali vengono abbandonate per venir incontro a un iperuranio realizzato e simulato.

La simulazione sta nel videogioco non in tutti i mezzi di comunicazione.

Il videogioco affinchè sia divertente tende inevitabilmente ad essere moralmente immorale.L'immoralità del videogioco è qualcosa di necessario affinchè la natura umana possa sperimentare e soddisfare i propri desideri e le proprie brame liberamente in assoluta libertà.Il videogioco è una valvola di sfogo delle tensioni accumulate e ovviamente tende ad essere accattivante in funzione delle sue potenzialità consentite in termini di azione al suo interno.Il videogioco è quindi un gioco simulato in uno schermo, e come tale non segue una prassi morale o legata ad un necessario soddisfacimento delle regole presenti nella realtà.

Con questo cosa voglio dire?Voglio dire che appare del tutto evidente che il videogioco produca situazioni o realtà non funzionanti, non realistiche, distopiche o immaginarie nella realtà ma proprio per questo il videogioco attira numerosi videogiocatori.

Quindi è possibile interpretare i videogiochi gestionali come delle mere ipotesi teoriche poste su un piano immaginario e fantastico di modelli utopistici anche immorali senza necessariamente vedere in essi delle forme di propaganda o di promozione di tali modelli anche nel dato reale.

E' il videogiocatore che decide in ultimo il valore e significato da attribuire a tale interfaccia virtuale depotenziando di fatto anche il ruolo e la possibile propaganda inconscia.

Questo rientra anche nella distinzione tra la realtà esterna e quella virtuale e come abbiamo già accennato tra i mezzi di comunicazione da quelli di espressione e di simulazione fantastica.

Quindi se mi metto a pianificare con un gaming online lo faccio per venir incontro a una mia curiosità o un mio divertimento a costo 0 senza avere interferenze sul dato reale anche qualora questi fossero utenti attivi come avatar in un dato multiplayer (figuriamoci negli avatar presenti nel videogioco in questione Cesar III o Sim City).

Ergo so bene che le cose all'interno di un videogioco in quanto forma espressiva e artistica sono al di là del bene e del male comunemente accettato nella società reale.

Con questo però non voglio negare la possibilità che molti adolescenti possano ritenere fattibile pianificare sia fuori che dentro un videogioco la società ma questo rientra nelle interpretazioni e negli strumenti (anche ideologici) già acquisiti e in possesso nell'individuo con i quali si interpretano tali fatti videoludici in opera.

Appare evidente che taluni videogiochi siano più raffrontabili e in grado di realizzare una simulazione attenta delle regole del mercato e del libero mercato anche con rudimenti austriaci (che io conosca esiste solo l'ottima serie Patrician dall'ambientazione commerciale medievale anseatica).

David D. Friedman ritiene che World of Wacraft sia un modello anarco-capitalista visto la presenza di regole derivanti dal gold standard applicate al suo interno per l'acquisto di bonus o per il commercio interno.

Questo è certamente vero anche se io ritengo che WoW rientri tra i videogiochi che tendano ad una certa neutralità o a una panarchica organizzativa affidata agli utenti che va ben al di là del mero dato economico, proprio perchè punta su un dato associativo o antropologico cooperativo.

Non a caso i videogiochi di simulazione virtuale di mondi, non essendo finalizzati al dato gestionale di risorse ma alla cooperazione, tendono ad essere meno incentrati su logiche platoniche.

In videogiochi come Sim City invece con l'estensione della città appare evidente e naturale che vi siano maggiori problematiche, costi di servizi e disfunzionalità che richiedono manutenzione e maggiori tasse.

Le tasse sono sempre presenti e pare che Will Wright non sappia cosa sia il tagli fiscali e i servizi privati (a parte qualche scuola privata o qualche chiesa più di decoro che altro).

Anzi per esperienza se io riduco a 0 o sotto una aliquota del 20% flat tax a tutti i vari ceti (puntando più su un indotto diffuso che concentrato di pressione fiscale), e categorie produttive, molto spesso non ottengo una crescita demografica e neppure degli introiti nel videogioco.

Ergo il linguaggio di programmazione codificato nella serie Sim City è fortemente keynesiano (basti pensare alle bolle immobiliari e palazzinare su cui il videogioco fa ampio uso), e questo pone l'intera esperienza del videogioco su tale tipo di comportamento da parte dell'utente come sua massimizzazione del divertimento.

Non a caso se aumento le tasse irrazionalmente cresce addirittura la domanda di bisogni (come pontifica Keynes) sebbene non necessariamente la popolazione (superata una certa soglia).

I servizi non sono dati in mano a privati ma sono centralizzati nella figura del sindaco, questo però comporta che superato un certo limite (a me capita intorno a città di 100.000 abitanti, quindi di medie dimensioni), il sistema collassa.

Troppi debiti, troppi acquedetti, troppe scuole, troppe centrali a gas o ad eolico non ammortizzabili (che poi nel videogioco le pale eoliche hanno pure un prezzo irrealmente vantaggioso come mezzo iniziale di erogazione energetica, rispetto a quello reale come Carlo Stagnaro potrebbe confermare....) tutto nelle mie mani e in costante crescita.

E poi i problemi dei rifiuti, delle aree verdi sempre ed esclusivamente pubbliche...

La pianificazione insomma non funziona o quantomeno non riesco da austriaco a farla funzionare a pieno.

Paradossalmente sembra nonostante tutto e contro ogni previsione, che un simil sistema keynesiano in un videogioco funziona meno che nella realtà come sua durata (si pensi alle megalopoli urbane reali e alla loro estensione attuale, c'è da dire che però queste conoscono quantomeno una maggior autonomia economica affidata ai privati come servizi funzionali) e questo non è male, anzi tende a costituire un interessante spunto in merito al dibattito tra concentrazioni urbane e periferia in termini jeffersoniani, oltrechè l'interrelazione tra addensati urbani entro una scala regionale in termini federalista di reti di cooperazione, sviluppando possibili scenari panarchici o vagamente indirettamente anarcocapitalistici (sebbene purtroppo il livello di anarcocapitalismo in tali videogiochi sia alquanto grossolani data l'onnipresente funzione governativa, solo in funzione di una ottimizzazione delocalizzante del tipo di servizio commerciale o servizio primario, secondario o terziario realizzato entro il singolo appezzamento di terreno) .

Il fatto che anch'io al pari dello studente della Mises University citato nell'articolo pur usando un differente videogioco gestionale non riesca a produrre una città virtuale superiore alle centomila unità senza che tali concentrazioni urbane eterodirette dall'alto siano costose e generalmente in perdita nel bilancio keynesiano (dedito al tentativo di un soddisfacimento del bisogno tralaltro contradditorio sia nelle istanze dei singoli che nei servizi) pongono un indiretto e una seconda considerazione più sottile e più inconscia su tale tipo di gioco rispetto al giudizio iniziale: si può essere bravi amministratori pubblici, oculati quanto si vuole, si può tagliare e ridurre al minimo i servizi comunque massimamente erogati ai cittadini (in assenza di operatori alternativi al videogiocatore nel gioco), ottimizzando le perdite comunque sempre presenti ma di fatto il videogioco dimostra quantomeno l'incapacità del videogiocatore di far fronte a tutte le richieste della popolazione pur attuando una pianificazione centrale.

Cioè il videogioco tenderebbe indirettamente a dimostrare sul dato concreto empirico delle ore giocate in puro stile keynesiano, gli effetti della malagestione e della pianificazione centrale indirettamente.

Questo nonostante la programmazione, lo scopo e la funzionalità dichiarata sia di fatto il contrario (ovvero una giocabilità keynesiana e demiurgica).

Non dico che la cosa sia voluta da parte dei programmatori, ma quantomeno questo è l'effetto non voluto o indotto intrisecamente dall'azione del fruitore più attento (o forse nel mio caso più incapace a produrre altre conseguenze avendo ben altri modelli economici in mente).

Trovo anch'io al pari dell'autore dell'articolo linkato, la difficoltà di realizzare una bilanciata gestione in attivo e certamente pur dando libero sfogo virtuale al keynesismo tassa e spendi per accondiscendere alle dinamiche del gioco, non solo non vedo migliorare nel complesso del bilancio la città, ma mi rendo conto che i problemi tendono ad incrementarsi e non a ridursi (non saprei se il software del gioco è programmato a complicare il livello interno della sfida in automatico invogliando ad un ulteriore dose krugmaniana di spesa e tasse o se è la dimostrazione di un raggiunto palese limite disfunzionale del sistema keynesiano stesso).

Certamente il videogioco rispecchia effettivamente con o senza una codificazione del programma di tali risultati, una difficoltà della propria gestione inflazionata direttamente man mano che si vuole operare su vasta scala.

Ergo il gioco parrebbe proporre man mano che gioco un controsenso implicito: più ampio ed estendo la mia giocabilità e la massimizzazione del mio dominio sul dato virtuale ottemperando alle varie funzioni keynesiane disponibili nel gioco (oltrechè alle richieste degli indicatori e consigli al suo interno) più ottengo l'esatto contrario, tendo cioè a perdere il controllo dei particolari e i numerosi parametri diventano talmente complicati e delicati da non permettere talvolta neppure paradossalmente una ulteriore interazione di tipo keynesiana senza andare in una sorta di default o di squilibrio del sistema tra le varie componenti che porta inevitabilmente alla tabula rasa e all'inizio di una nuova partita.

Di fatto il keynesismo porterebbe ad una situazione kafkiana, ad una forma parmeneidea innaturale dettata dal keynesismo acquisito a fronte di quello impossibile da inflazionare in seguito, di fatto una situazione paradossalmente di stasi contraria al keynesismo stesso pur non essendo comunque idonea per venirne fuori dagli annosi problemi.

I debiti aumentano, le richieste pure, i servizi vengono sempre più richiesti eppure il sistema impotente nel soddisfare tali domande indotte, tende alla fin fine a rivelarsi controproducente anche rispetto a quanto venutosi a realizzare sino ad allora in termini più o meno soddisfacenti.

Con questo non voglio dire che lo zampino austriaco sia presente come morale finale dell'esperienza ludica, nè che dopo un certo punto del gioco bisogni cambiare parametri economici culturali da socialisti in termini miniarchici, ma certo la schizofrenica gestione keynesiana dimostra tutto il suo fiato corto dopo un paio di orette di intenso gioco.

I cittadini virtuali indirettamente pur non essendo rilevanti sembrano divenire improvvisamente insoddisfatti e quasi nauseati da tale attivismo del deus ex machina, benchè sino a quel momento abbiano vissuto nel socialismo più sfrenato trovando soddifsfatta e soddisfacente ogni loro richiesta nella forma più totalitaria e assistita di vita urbana.

Non saprei dire se è una mia sensazione nel leggere gli indicatori di sfiducia e la fuga di decine di migliaia di cittadini dalla città amministrata o se è una impostazione del software del videogioco ma parrebbe quasi che dopo un certo punto di edificazione e di urbanizzazione keynesiana, la città a seconda dell'equilibrio tra servizi, demografia, fisco e ambiente posti sul campo, tenda a raggiungere un limite superato il quale avviene l'implosione e il suo collasso (questo può avvenire a seconda del mix di case, servizi, industrie o tasse a centomila come a cinquantamila abitanti prima o dopo) in stile sovietico.

Parrebbe insomma che Sim City tenda paradossalmente a produrre il ciclo economico in tutte le sue fasi, quella keynesiana dell'espansione e quella misesianamente della contrazione o crisi del crack up boom.

In conclusione appare del tutto evidente che i videogiochi anche quelli più propagandistici e stupidi per logiche apparenti o per dinamiche reali siano dei validi passatempi e paradossalmente degli straordinari insegnanti (se oculatamente interpretati nei termini corretti).

I videogiochi in sè per sè non hanno alcuna colpa in tutto ciò, neppure se ci inducono volutamente a passare qualche ora keynesiana e guerrafondaia davanti al nostro monitor (l'importante è aver bene in mente la dimensione ludica del proprio operato a fronte di una realtà differente).

Paradossalmente rivelano aspetti simulati della natura e delle pessime idee dell'uomo poste a compimento fortunatamente solo sul video, permettendoci di capirle senza bisogno di applicarle nel dato reale per vedere il loro concreto fallimento.

I videogiochi sono quindi maestri di vita, ci permettono di capire la difficoltà del bene e del male proprio trascendendo da tali valori nella loro messa in pratica virtuale.Sono una dimostrazione ludica di idee e teorie, degli istinti e delle ambizioni umane.

Il videogioco gestionale è al massimo riflesso di questa prassi presente in alcuni uomini, e certo al pari dei libri questi vanno interpretati anche attraverso la loro diretta interazione virtuale.

Pare evidente e necessario allora far notare anche alla luce delle mie ore di gioco con tali gestionali che i politici reali (aspiranti reali imperatori, faraoni e imperatori sulle nostre vite reali non in quelle dei videogiochi) abbiano un grave problema di percezione distorta della realtà e della differenza tra mondo reale e simulato.

Di fatto i politici keynesiani socialisti e statalisti del mondo reale sono da questo punto di vista delle persone malate e con un problema di tipo ludico incompiuto.

Gli statalisti non dico che debbano aver giocato come me a Sim City (di certo non ci hanno giocato intenti come sono a rubar soldi) ma non hanno neppure imparano dagli errori del passato (molto spesso compiuti da loro stessi), preferiscono produrre dei disastri economici a catena nel mondo reale anzichè giocare e imparare divertendosi nel mondo virtuale a verificare in "laboratorio" le loro pseudoteorie (che non sempre funzionano neppure nei videogiochi come ho ben delineato, superato un certo limite).

I politici sono allora dei fanciulli eraclitei che si pongono il compito di governare la realtà giocando con il destino degli altri?.

Per certi versi apparentemente si a prima vista.

Sono dei bambini cresciutelli e anzianotti che pensano di giocare a fare Dio o il faraone o il Cesare nella realtà proprio perchè non hanno mai giocato o non conoscono la possibilità di farlo nella realtà virtuale o solo perchè hanno sbagliato l'epoca in cui nascere.

Ma temo che ci sia anche altro a tale spiegazione un pò semplicistica.

Temo che non siano tanto fanciulli eraclitei o piuttosto dei traumatizzati infantili assetati di divertimenti non realizzati quando portavano i calzoni corti (a causa forse di una attività politica precoce) quanto piuttosto degli avidi di potere e di volontà di coercizione.

I politici statalisti sono volutamente dei sadici criminali in quanto godono nel voler proporre senza alcuno scopo, senza nessun benessere o nessuna felicità la loro volontà ideologica sugli altri al di là della loro fallimentare visione.

Qui non si tratta di un percorso spirituale o inconscio interiore di tipo eracliteo-nietzschiano oltreumano teso a sè stessi e ad altri orizzonti, qui si tratta di promozione di una volontà di obbedienza e comando sugli altri, di un egotismo smisurato non finalizzato all'egoismo smithiano o a una razionale funzione economica prasseologica.

Di fatto parliamo di una cieca volontà socratica e di una razionalizzazione il-logica che è di fatto mostra la sua assurdità a lunga scadenza (come dimostra anche l'operato keynesiano in Sim City).

Pura metafisica, puro fideismo filisteo autoreferente ammantato a certi valori collettivi di patria, nazione, popolo, religione.

I politici sfruttano la loro ignoranza come valore, il loro essere al servizio di una causa superiore anzichè della propria come privati cittadini.

No, il politico non è un privato cittadino.

La loro causa è pubblica e in quanto pubblica è la loro idea di attuazione anche di ciò che è esclusivamente personale a danno degli altri.

Il politico vede nel "privato" un competitors eccetto quando questo privato produce una loro autoreferenzialità lobbistica oppure una personificazione di sè stessi a vari livelli.

E' l'uomo stesso a contemplare una trascendenza esteriore rivolta al mondo anzichè verso sè stesso in termini individualistici (non necessariamente religiosi o quantomeno non nel significato comune o realizzatosi sovente come rozza cultualità).

Egli si affida a categorie come Stato, Democrazia, Nazione o Popolo perchè ritiene di superare i limiti stessi umani mettendosi al servizio di una causa superiore.

E' la retorica organicistica e meccanicistica all'opera.

In realtà non supera un bel niente, egli dimostra tutta la sua paura di sè stesso di un suo agire libero responsabile in quanto potenzialmente erroneo.

Lo statalista è il pianificatore, ed è colui il quale teme l'individuo proprio perchè teme sè stesso, egli si illude che omologare e mettere gli altri e in primo luogo sè stesso al servizio di una idea superiore istituzionalizzata, possa produrre un agire a tavolino di per sè in termini moralmente giusti e privi di ogni errore.

La mistica paura che porta con sè, lo porta a inserire sè stesso entro meccanismi di controllo reciproco attorno ad uno scopo comune riducente, che tende ad estirpare la propria individualità e la propria creativa al servizio di una logica preconfezionata e apodittica.

Lo statalista pianificatore ha paura, teme il fallimento come nessun altro.

Lo statalista ha paura di riconoscere l'errore.

Egli idealisticamene mira alla perfezione all'escatologia delle proprie idee e del proprio essere (il controllo di tutto e di tutti, che equivale anche ad una moralizzazione di tutto e di tutti) in termini ossessivi.

Se ottemperasse l'errore l'intero sistema idealistico delle idee entrerebbe in crisi e potrebbe essere criticato e abbattuto facilmente da altre idee.

E dato che la sua idea è monodica e monomaniacale se ottemperasse l'errore con l'esperienza conseguita, se riconoscesse quindi l'impossibilità o il fallimento di un tale sistema farraginoso posto su vasta scala, se vedesse in tutto ciò l'immoralità di tale metodo e sistema centralizzato di controllo e la sua efficacia, egli come minimo impazzirebbe e verrebbe a perdere ogni ragione di vita in quanto non solo si interromperebbe il circolo vizioso della sua autoreferenzialità ma di fatto risulterebbe evidente la sua palese inutilità nei confronti del prossimo all'interno dell'ordine spontaneo di natura dell'azione umana.


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