mercoledì 9 giugno 2010

Un libero mercato è possibile

Ronald Coase disse: "Il libero mercato in libera concorrenza è in grado di garantire virtualmente qualsiasi servizio ad un prezzo migliore e con una qualita superiore rispetto ai servizi oggi offerti in regime di monopolio dallo stato".

In questo articolo gli ultimi nobel per l'economia (Ostrom e Williamson), partendo dalla premessa di Coese, analizzano il modo in cui gli individui possono cooperare in libero mercato.

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di Carlo Lottieri

Esiste certamente un nesso tra gli studi di Elinor Ostrom, premiata poche ore fa con il Nobel per l’economia grazie alle sue ricerche sul ruolo delle proprietà comuni, e quelli di Oliver Williamson, anch’egli insignito della massima onorificenza riservata agli economisti per aver sviluppato una teoria dell’impresa. Al fondo, entrambi questi studiosi hanno utilizzato gli strumenti dell’economia per approfondire la conoscenza del modo in cui gli individui apprendono a cooperare. Entrambi, in particolare, hanno saputo guardare al mercato come ad un’istituzione che permette lo sviluppo al proprio interno di altre istituzioni.

Questa volta gli svedesi hanno fatto scelte ben calibrate. Se lo scorso anno quanti avevano premiato Paul Krugman avevano compiuto una valutazione assai bizzarra (insignendo di un titolo prestigioso un commentatore politico noto solo per la sua partigianeria, e che in verità è studioso assai modesto), Ostrom e Williamson sono ricercatori di valore, che hanno dato contributi di rilievo alla scienza economica. Non sono noti al grande pubblico perché non firmano editoriali sul “New York Times”, ma sono apprezzati da ogni economista informato.
Dovendo presentare i loro studi bisogna partire da Ronald Coase, e in particolare da due suoi saggi notissimi: “La natura dell’impresa” (del 1937) e “Il problema del costo sociale” (del 1960). Quest’ultimo è l’articolo di economia più citato della storia e si pone essenzialmente il problema di valorizzare come molti problemi di “esternalità” (cioè di conflitti tra attività non facilmente conciliabili: un’impresa, ad esempio, che inquini un laghetto da cui un pescatore trae di che vivere) possano essere risolti senza ricorrere alle soluzioni classiche: la regolamentazione e la tassazione.

In questo studio Coase – che ha preceduto Williamson e Olstrom nell’ottenere il premio Nobel (fu premiato nel 1991) – sottolinea come si possa spesso giungere a soluzioni migliori semplicemente definendo i diritti di proprietà (“chi può fare cosa”) e lasciando poi interagire e negoziare i vari attori. Se ad esempio riconosciamo che il laghetto è del pescatore, l’impresa non potrà inquinarlo, a meno che non offra una ricompensa che il titolare riterrà adeguata.
È anche grazie a questi studi che l’economia è tornata a scoprire la sua antica vocazione di scienza sociale in grado di illuminare le principali questioni istituzionali, come già al tempo dell’economia politica di Turgot, Adam Smith o Jean-Baptiste Say.

Williamson muove da qui, ma anche e soprattutto da quel saggio giovanile di Coase in cui l’impresa viene letta come una soluzione emergente dal mercato. Entro un’economia limitata a soggetti singoli si avrebbe un’enorme complessità di scambi puntuali, che renderebbero costosissime talune produzioni e attività. Da qui l’esigenza di strutturare la produzione grazie a “gerarchie” che, sulla base di relazioni contrattuali, evitino l’esigenza di una negoziazione continua. L’azienda nasce in questo momento. L’operaio o l’impiegato contrattano insomma una volta soltanto la loro posizione, e poi si limitano a seguire le indicazioni di quanti – nella struttura dell’impresa – sono destinati a organizzare la produzione.

Collocata entro questa prospettiva, l’impresa non è più qualcosa di estraneo o altro rispetto al mercato. Essa invece nasce dal mercato stesso e si sviluppa per renderlo maggiormente efficace: in grado di soddisfare i consumatori. L’azione imprenditoriale di chi crea, struttura e “pianifica” la struttura aziendale è così al centro della vita di un’economia di mercato pienamente sviluppata.
Non è un caso, allora, se un allievo di Williamson come Peter G. Klein ha parlato del suo anziano maestro come del vincitore di Nobel più vicino alle idee della scuola austriaca dell’economia: almeno dal 1974 (l’anno in cui il premio fu assegnato a Friedrich von Hayek). La scuola detta “austriaca”, infatti, non è soltanto la più liberale tra le scuole di economia, ma è anche quella che più ha enfatizzato il ruolo di alcuni elementi: la soggettività delle preferenze (e quindi il carattere soggettivo del valore), il ruolo delle istituzioni di formazione spontanea, il carattere disperso delle conoscenze. E Williamson sembra essere molto sensibile a talune di queste lezioni quando delinea una sua teoria della governance aziendale che enfatizza la razionalità limitata degli attori, sottolinea come l’incertezza sia un dato insuperabile (anche perché nessun contratto può prevedere in anticipo tutte le possibili situazioni che si verranno a creare) e, infine, rileva la centralità del processo di adattamento e costante mediazione.

In questo senso, affinché le aziende possano strutturarsi al meglio e operare in maniera efficace (anche evitando che la necessaria “gerarchia” aziendale acquisisca caratteri in qualche modo illiberali) è necessario che queste “isole strutturate” che sono le imprese si collochino entro un mercato davvero aperto. Solo una concorrenza spietata può offrire alle imprese, a chi le dirige e a chi a vario titolo partecipa alla sua esistenza, le corrette informazioni per progredire nella giusta direzione. Solo la possibilità di trovare attorno a sé alternative, in particolare, garantisce la possibilità di abbandonare un’impresa malgestita o che comunque non è stata in grado di gratificare chi lavora per essa.

In questo senso, l’azienda risolve i problemi strutturali del mercato (i costi eccessivi di una negoziazione onnipresente), ma al tempo stesso erode spazio ai poteri pubblici. L’organizzarsi dei singoli in aziende finisce per potenziare la loro azione e per dimostrare come l’alternativa classicamente individuata da Hobbes tra ordine (Stato) e disordine (mercato) possa essere evitata. L’azienda imprenditorialmente concepita che è al cuore delle ricerche di Williamson è quindi un pilastro fondamentale della società libera.

La stessa Ostrom non è distante dai temi e dalle questioni che sono cruciali per il pensiero liberale. In particolare, l’economista americana (moglie di Vincent, anche lui economista e cofondatore di The Workshop in Political Theory and Public Policy dell’Indiana University) ha affrontato a più riprese il tema delle “proprietà comuni” – si pensi ai condomini – quali soluzioni emergente in talune specifiche situazioni.

Sulla scorta di un classico studio risalente al 1968 del biologo Garrett Hardin dedicato alla cosiddetta “tragedy of the commons” (la tragedia dei beni comuni), la letteratura economica liberale ha spesso guardato con un certo sospetto ogni soluzione sovra-individuale. In questo senso, gli studi della Ostrom (e di quanti insieme a lei hanno invece cercato di comprendere la razionalità delle soluzioni collettive) hanno invece rilevato – e l’analogia con gli studi di Williamson è evidente – come una taglia più ampia sia spesso auspicata dai consumatori e largamente soddisfacente. Le soluzioni condominiali, proprio come le imprese, sono figlie del mercato, e non già nemiche o avversarie.

In questo senso è interessante come anche in Italia quanti si occupano delle istituzioni tradizionali di villaggio (vicinie, patriziati, comunanze, usi civici, partecipanze, università agrarie e via dicendo) guardino spesso alla Ostrom come ad un riferimento importante. È infatti la sua analisi economica delle istituzioni e della politica – largamente debitrice nei riguardi degli studi di Public Choice (James M.. Buchanan, tra gli altri) – che può illuminare la razionalità e, sotto taluni apsetti, perfino l’attualità di un tipo di proprietà comune che è più condominiale che pubblica, più consortile che statale.

Oggi, inoltre, la Ostrom è spesso studiata da quanti si occupano di concorrenza istituzionale e federalismo, perché è solo grazie ad una riflessione economica in grado di illustrare la vocazione dei proprietari a mettere qualcosa in comune e, invece, a lasciare qualcosa sotto il proprio diretto controllo che è possibile iniziare a sviluppare un’analisi dei governi divisi e del pluralismo delle istituzioni che aiuti a comprendere la forza delle soluzioni istituzionali decentrate: che obblighino città e regioni a competere tra loro.

Se l’anno scorso da Stoccolma è giunta una decisione vergognosa, perché Krugman sta all’economia come Dario Fo sta alla letteratura, con le due scelte di quest’anno gli accademici svedesi sono tornati a guardare alla sostanza delle cose. Avrebbero potuto fare anche altre scelte (penso a Israel Kirzner, ad esempio, i cui studi sull’imprenditore sono di straordinaria importanza), ma nessuno – negli anni a venire – potrà loro rimproverare di non aver premiato studiosi di valore.


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