domenica 30 ottobre 2011

La Falla Critica nel Sistema di Keynes

Ralph Raico, nel suo libro Classical Liberalism and the Austrian School, provvede a smontare quel mito secondo cui Keynes era un campione liberale paragonabile a Locke o a Smith. Scrive Raico: «Prima di Keynes, il bilanciamento del bilancio era come minimo l'obiettivo dei paesi civili. Il Keynesismo ha invertito questa "costituzione fiscale". Rendendo i governi responsabili di politiche fiscali anti-cicliche, ignorando la tendenza dei politici miopi ad accumulare deficit, ha preparato il terreno per i livelli senza precedenti di tassazione e di debito pubblico nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale. [...] [Keynes] confessò di aver ordito nella sua mente "la possibilità di maggiori cambiamenti sociali in accordo con la filosofia attuale", anche di pensatori socialisti come Sidney Webb. "La repubblica della mia immaginazione si trova all'estrema sinistra dello spazio celeste", pensò. [...] Lo Stato, secondo Keynes, deciderà anche il livello ottimale di popolazione [...] Così, lo Stato - nella sua veste di "uomo civilizzato" - sarà il canale ed il supervisionatore della riproduzione della razza umana. Keynes smaniava per la volontà dei Sovietici di impegnarsi in esperimenti di ingegneria sociale. In Russia "il metodo del trial-and-error è stato impiegato senza riserve. Nessuno è mai stato più sperimentalista di Lenin". Per quanto riguarda gli "esperimenti" falliti catastroficamente dei primi anni di governo bolscevico, che avevano costretto il passaggio dal "comunismo di guerra" all'allora sistema della Nuova Politica Economica, Keynes li descrive in termini più lievi : gli "errori" di partenza erano ormai stati corretti e le "confusioni" dissipate.» E dopo di questo, possono partire i titoli di coda.
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di Robert P. Murphy


Come parte del mio corso Keynes, Krugman and the Crisis al Mises Academy, ho ri-letto un'ampia parte della General Theory. Nella sua opera maggiore, Keynes erige una struttura impressionante su un'affermazione fondamentale: lasciato ai suoi stessi strumenti, il libero mercato può finire impantanato in un equilibrio con una disoccupazione molto alta.

Sebbene l'intero edificio di Keynes e la critica degli "economisti classici" hanno le loro basi su questa credenza, dedica sorprendentemente poco tempo a sostenerla. Nell'attuale articolo evidenzierò la debolezza del suo punto di vista. Se si scopre che il libero mercato si muove naturalmente verso la piena occupazione nel mercato del lavoro, allora l'intera "teoria generale" di Keynes decade.



La Teoria "Generale" di Keynes contro il "Caso Speciale" degli Economisti Ortodossi

Keynes chiamava la sua struttura una teoria generale per contrastare il "caso speciale" gestito dagli economisti ortodossi di libero mercato (che Keynes chiamava "economisti classici"). L'analogia qui era con gli straordinari avanzamenti in fisica, dove la teoria della relatività di Einstein spiegava cose (come il comportamento degli orologi ad alta velocità) che la classica struttura newtoniana non poteva gestire. Tuttavia, Einstein non accantonò del tutto Newton, perché a basse velocità (in relazione alla velocità della luce), le equazioni della relatività "si riducevano" alle meccaniche newtoniane più familiari.

Keynes sosteneva che c'era una situazione analoga in economia. Mentre concordava che gli economisti classici (come evidenziato nel lavoro di David Ricardo e J.B. Say) ed i loro moderno discepoli avessero accuratamente descritto i principi delle entrate e dei bilanciamenti tra i consumi ed i risparmi per un'economia a piena occupazione, Keynes stava offrendo una teoria più generale — una che potesse modellare l'economia anche quando stesse operando ben al di sotto della capacità con "risorse inattive".

I Keynesiani moderni credono che uno dei contributi cruciali della General Theory era che fornisse una struttura coerente che spiegava come l'economia potesse rimanere impantanata per molti anni al di sotto della piena occupazione. Gli economisti "classici" credevano che un libero mercato avrebbe eradicato velocemente un eccesso nel mercato del lavoro (per esempio, una situazione di alta disoccupazione), ma Keynes mostrava apparentemente che i loro argomenti erano fallaci.

Se qualcuno legge la General Theory dalla prima all'ultima pagina, c'è una cosa che si ripete frequentemente: il sistema Keynesiano gestisce il fatto che l'economia può avere vari livelli di occupazione. Non parlerà "del" tasso d'equilibrio dell'investimento o dei risparmi, perché queste sono variabili endogene che sono influenzate dalla quantità totale dell'occupazione e delle entrate. Pertanto i punti di vista classici sulla spesa del governo e sulla funzione del tasso d'interesse sono (presumibilmente) errati. Gli economisti classici si concentrano erroneamente sullo speciale e limitante caso della piena occupazione, mentre non comprendono che i loro punti di vista sono sbagliati, in generale.

Pertanto, è assolutamente fondamentale per la struttura Keynesiana che il libero mercato possa trovarsi impantanato al di sotto della piena occupazione per lunghi periodi. Poiché se la saggezza classica di J.B. Say e degli altri è corretta — e l'economia si muove naturalmente per ripulire i mercati e raggiungere la "piena produzione" — allora sono le strategie proposte dai Keynesiani che condurranno al disastro, non quelle ortodosse di libero mercato.



Perché gli Economisti Ortodossi Pensavano che la Disoccupazione Fosse Volontaria

Nel capitolo 2, Keynes prende in considerazione i postulati gemelli della Scuola Classica. Il primo è che (in un equilibrio competitivo) il saggio salariale equivale al prodotto del lavoro marginale. Keynes non ha alcun problema con ciò.

Tuttavia, è il secondo postulato che causa controversia. E' l'affermazione che (in un equilibrio competitivo) l'utilità del saggio salariale bilancerà semplicemente la disutilità del lavoro.

Se questo secondo postulato è vero, allora la disoccupazione è "volontaria". I lavoratori potrebbero essere circondati da lavori, è vero, ma si stanno deliberatamente trattenendo, cercando migliori offerte rispetto a quelle sul tavolo. Potrebbero prendere un lavoro al saggio salariale che prevale nel mercato, ma scelgono di non farlo. Così, il secondo postulato è confermato, perché la "disutilità del lavoro" (considerando tutte le cose, incluso il costo d'opportunità nel terminare prematuramente la ricerca del lavoro) è abbastanza alta da compensare il vantaggio di prendere un lavoro e guadagnare secondo il saggio salariale di mercato.

Ma aspettate un attimo. Sicuramente gli eonomisti ortodossi di libero mercato avrebbero potuto aprire i propri occhi e vedere che c'era ampia disoccupazione durante l'inizio degli anni trenta. Pensavano davvero che ciò fosse solo un Grande Vuoto, come sottolineano alcune critiche moderne alla teoria del Ciclo Economico Reale fatte dai loro colleghi di libero mercato?

Keynes pensava di si e spiegò come si potesse riconciliare il "secondo postulato" con l'ampia disoccupazione che aveva sotto gli occhi:

E' vero che le sopracitate categorie sono esaustive alla luce del fatto che la popolazione raramente lavora tanto quanto avrebbe voglia di fare sulla base dell'attuale salario? Poiché più lavoro, di norma, sarebbe disponibile all'attuale salario se fosse richiesto. La scuola classica riconcilia questo fenomeno con il suo secondo postulato dicendo che, mentre la domanda per il lavoro all'attuale salario potrebbe essere soddisfatta prima che tutti quelli disposti a lavorare a questo salario trovino impiego, questa situazione è dovuta ad un aperto o tacito accordo tra i lavoratori che non vogliono lavorare per meno e che se la manodopera nel suo complesso concorderebbe ad una riduzione dei salari più occupazione sarebbe disponibile. Se questo fosse il caso, tale disoccupazione, sebbene apparentemente involontaria, non sarebbe strettamente così e dovrebbe essere inclusa nella sopracitata categoria di disoccupazione "volontaria" dovuta agli effetti del guadagno collettivo, ecc.

Ora possiamo cavillare su quanto "volontaria" sia se, diciamo, una persona disoccupata non può trovare un lavoro perché i picchettatori dei sindacati minacciano di picchiare qualunque "crumiro" si presenti davanti l'industria. In qualsiasi evento, il punto importante è che gli economisti ortodossi pensavano che l'ampia disoccupazione fosse dovuta a saggi salariali mantenuti al di sopra del livello di mercato. Se i sindacati concorderebbero semplicemente in riduzioni dei salari, allora la quantità richiesta di lavoro aumenterebbe, la quantità offerta diminuirebbe ed il mercato ancora una volta si troverebbe in piena occupazione.

Ah, ma Keynes non pensava che le cose fossero così semplici come sostenevano gli ingenui economisti classici.



Perché Keynes Pensava che il Mercato del Lavoro Potesse Essere Impantanato nella Sovrabbondanza

Keynes rigettò il concetto secondo cui, lasciato ai suoi stessi strumenti (e senza l'interferenza dei sindacati), il mercato del lavoro si sarebbe ripulito, in modo che nessuno che fosse rimasto disoccupato lo stesse facendo come scelta volontaria. Aveva due argomenti principali, uno empirico e l'altro teorico.

Primo, Keynes pensava che i lavoratori fossero fedeli "all'illusione del denaro" (sebbene Keynes pensasse che avessero giustificazioni razionali per fare ciò). In altre parole, i lavoratori non rispondevano solamente al saggio salariale (aggiustato secondo l'inflazione nei prezzi) "reale", ma si preoccupavano dei salari assoluti (nominali) che ricevevano nei loro assegni paga:

L'esperienza ordinaria ci dice, senza dubbio, che una situazione dove il lavoro determina (entro limiti) un salario monetario piuttosto che un salario reale, lontano dall'essere una semplice possibilità, è la normalità. Mentre i lavoratori resistereanno di solito ad una riduzione dei salari monetari, non è loro pratica ritirarsi dal proprio lavoro qualora ci sia un aumento nei prezzi dei beni rispetto al salario. A volte si dice che sarebbe illogico per un lavoratore resistere ad una riduzione monetaria del salario, ma non resistere ad una riduzione del salario reale. Per le ragioni fornite in basso [...] ciò non potrebbe essere così illogico come potrebbe sembrare a prima vista; e, come vedremo più avanti, fortunatamente è così. Ma, che sia illogico o logico, l'esperienza mostra che ciò è come il lavoro difatti agisce.

Questo è il discorso standard dei "salari viscosi" a causa dell'inflazione monetaria: se i salari reali sono troppo alti, in modo che ci sia un'eccedenza di lavoro offerto dal mercato, allora la soluzione è che i salari reali diminuiscano. Ma visto che i lavoratori resistono ai tagli nei loro salari nominali, la sola risposta è che la banca centrale inflazioni l'offerta di denaro, facendo aumentare più velocemente i prezzi rispetto ai salari, in modo che i lavoratori finiscano per guadagnare di meno in termini reali.

Il problema con tale diagnosi del "libero mercato" è che i salari monetari sono viscosi in gran parte a causa dell'intervento del governo, inclusa la possibilità dell'inflazione della banca centrale. Come ho esposto nel mio libro sulla Grande Depressione, i salari monetari medi caddero molto velocemente nella depressione del 1920-1921, rispetto al declino molto più modesto durante i primi anni della Grande Depressione. Forse il cambiamento era dovuto ad un maggior potere del sindacato, oppure all'appello di Herbert Hoover nei confronti della finanza a sostenere i salari. Qualunque fosse la causa, i "salari viscosi" della prima fase della Grande Depressione non erano in acoordo con l'economia di mercato, perché i salari erano molto più flessibili un decennio prima.

Più in generale, i programmi del governo come gli indennizzi di disoccupazione davano ovviamente ai lavoratori un incentivo a mantenersi in attesa per migliori offerte prima di ritornare a lavorare.



I Lavoratori Potrebbero Accettare Tagli ai Salari Anche Se Li Volessero?

Oltre la sua osservazione empirica secondo cui i salariati tendono a resistere ai tagli nei salari monetari, Keynes fornisce un'obiezione più profonda e teorica al punto di vista ortodosso secondo cui il mercato del lavoro può velocemente ritornare al pieno impiego con salari flessibili:

La teoria classica afferma che la manodopera è sempre aperta a ridurre il proprio salario accettando una riduzione nel proprio salario monetario. Il postulato secondo cui c'è una tendenza del salario reale a raggiungere una parità con la disutilità marginale della manodopera presume chiaramente che la manodopera stessa sia in una posizione di decidere il salario reale per il quale lavorare, sebbene non la quantità di occupazione disponibile a questo salario.

La teoria tradizionale sostiene, in breve, che le negoziazioni sul salario tra gli imprenditori ed i lavoratori determinano il salario reale; in modo che, presumendo una libera competizione tra i datori di lavoro e nessuna combinazione restrittiva tra i lavoratori, quest'ultimi possono, se vogliono, portare i salari reali in conformità con la disutilità marginale all'ammontare di occupazione offerta dai datori di lavoro a quel salario. Se ciò non è vero, allora non c'è più alcuna ragione per aspettarsi una tendenza verso la parità tra il salario reale e la disutilità marginale della manodopera. [...]

Ora l'affermazione che il livello generale dei salari reali dipende dalle negoziazioni sul salario monetario tra i datori di lavoro ed i lavoratori non è ovviamente vera. Infatti è strano che sono stati fatti così pochi tentativi per provarla o confutarla. E' lontana dall'essere coerente con il tenore generale della teoria classica, che ci ha insegnato a credere che i prezzi sono governati dal costo primaro marginale in termini di denaro e che i salari monetari governano ampiamente il costo primario marginale. Così se i salari monetari cambiano, ci si aspetta che la scuola classica spieghi che i prezzi cambiano secondo la stessa proporzione, lasciando il salario reale ed il livello di disoccupazione praticamente come prima, qualsiasi piccola perdita o piccolo guadagno della manodopera è a spese o a favore di altri elementi del costo maginale che sono stati lasciati inalterati.

Prima di passare alla critica, facciamo chiarezza su quello che Keynes sta dicendo. Si, i lavoratori disoccupati potrebbero essere disposti a prendere lavori a paghe significativamente ridotte (in termini di quantità assoluta di dollari presenti in busta paga). Anche i lavoratori attualmente impiegati dovrebbero seguire l'esempio, per paura di essere licenziati.

Ma non possiamo presumere che ogni altra cosa rimarrebbe come prima, con la sola differenza che i salari monetari sono più bassi. Keynes evidenzia che con costi del lavoro ridotti, le imprese distribuirebbero quei risparmi ai loro clienti sottoforma di prezzi più bassi. Visto che il lavoro rappresenta un'ampia frazione dei costi totali, le aziende potrebbero scoprire che quasi tutti i loro risparmi sui salari sono stati compensati da cali nelle entrate. Così, i salari reali sarebbero ancora troppo alti, e ci sarebbero ancora troppi lavoratori in cerca di lavoro rispetto all'ammontare di posti che i datori di lavoro vogliono riempire.

Ci sono diversi problemi con questa analisi. I costi del lavoro sono una larga frazione delle spese totali, ma difficilmente sono l'intera torta. Secondo questo articolo, la parte delle entrate nazionali del lavoro negli Stati Uniti è variata tra il 52% ed il 60% nel dopoguerra.

Quindi anche se supponiamo meccanicamente che una caduta nei salari monetari della manodopera si tradurrebbe in una caduta proporzionale nei prezzi al dettaglio, ciononostante la manodopera avrebbe il potere di ridurre i propri salari reali. Per esempio, se i lavoratori hanno ricevuto un taglio del 10% nei loro salari monetari, allora i prezzi dei beni che producono cadrebbero solo tra il 5% ed il 6%. La manodopera sarebbe più a basso costo, anche in termini reali, ed i datori di lavoro si muoverebbero lungo la loro curva di domanda ed impiegherebbero più lavoratori.

Ma ci sono altri problemi con l'analisi di Keynes. Consideriamoli: Qual'è l'attuale meccanismo attraverso il quale i costi in diminuzione conducono ad una diminuzione dei prezzi al dettaglio? Partiamo da un equilibrio iniziale, dove i lavoratori guadagnano (diciamo) 10$ l'ora, ed il bene al dettaglio è venduto a 100$. Le aziende sono felici con il numero di lavoratori che hanno impiegato a 10$ l'ora e con la quantità di beni che possono vendere a 100$ l'uno.

Ora, visto che la disoccupazione è molto alta, le aziende possono cavarsela se tagliano la paga dei loro lavoratori a 9$ l'ora. Mantenendo tutto il resto costante, stanno facendo più profitti di prima. Cosa le indurrebbe ad abbassare il loro prezzo al dettaglio da 100$?

La risposta più ovvia è che vogliono catturare una maggiore porzione del mercato. Cioè, vogliono vendere più unità di beni al dettaglio ai loro clienti. Non possono fare ciò con la loro forza lavoro originale. No, in modo da rendere redditizio tagliare il prezzo al dettaglio, hanno bisogno di assumere più lavoratori e stimolare la produzione. Quindi, in modo da spronare una maggiore quantità di prodotto, tagliano i prezzi da 100$ a (diciamo) 98$. Anche se guadagnano meno entrate per unità, cionnostante fanno più profitto totale.

Le altre aziende fanno la stessa cosa, oviamente, finché il nuovo equilibrio mette radici con saggi salariali a 9$ l'ora e il prezzo al dettaglio a (diciamo) 95$ per unità. Così un'ampia parte dei tagli ai salari dei lavoratori è stata distribuita ai consumatori sottoforma di prezzi al dettaglio più bassi. Ciononostante, nel nuovo equilibrio, ogni azienda sta producendo più unità, e così sta portando una maggiore forza lavoro rispetto a prima della riduzione dei salari.

Un punto finale: Il Keynesiano potrebbe obiettare all'analisi sopraticata dicendo: "Murphy, stai sorvolando il fatto che i clienti ridurranno la loro domanda per i prodotti dell'azienda, perché molti di loro sono lavoratori che stanno sperimentando tagli nei loro salari monetari. Se i lavoratori guadagnavano 10$ l'ora ed ora guadagnano 9$ l'ora, allora dovranno tagliare i loro acquisti di beni e servizi. Così le aziende avranno bisogno di abbassare i loro prezzi senza espandere la produzione, ma solo impendendo alle vendite di calare."

Ma anche ciò ripete l'errore di presupporre che tutti i clienti consistano in stipendiati. Come abbiamo visto, i lavoratori (almeno negli anni del dopoguerra negli Stati Uniti) guadagano solo circa il 50-60% delle entrate totali. I capitalisti, i proprietari terrieri ed altri guadagnano il restante 40-50%. Così sebbene sia vero che la domanda per i prodotti al dettaglio cadrebbe da parte dei salariati, è anche vero che
  • la decrescita non sarebbe uno a uno con la riduzione dei salari, e
  • potrebbe anche essere completamente controbilanciata perché gli altri gruppi vedrebbero inizialmente le loro entrate andare su.

Per esempio, consideriamo le aziende nel momento in cui i lavoratori accettano la riduzione della paga da 10$ a 9$ l'ora. Mantenendo tutte le altre cose costanti, gli azionisti delle aziende stanno ora raccogliendo profitti extra. Se scegliessero di spendere le loro maggiori entrate in quegli stessi oggetti dove i salariati stanno ora riducendo i propri acquisti, allora la domanda per beni al dettaglio non cambierebbe affatto.

Più realisticamente, gli azionisti delle aziende spenderebbero probabilmente le loro maggiori entrate in cose differenti. Così alcune industrie (yacht, ristoranti di lusso, beni capitali, immobili, ecc.) sperimenteranno un'espansione, mentre altre (cinema, ristoranti di bassa scala, industria della birra) una contrazione.

Alcuni potrebbero obiettare che questo cambiamento nella distribuzione delle entrate sia immorale o ingiusto. Il punto, tuttavia, è che Keynes si sbagliava quando spiegava che i lavoratori non avevano il potere di accettare salari reali più bassi.

Un'altra considerazione è che ci sono più lavoratori che ricevono salari una volta che le aziende espandono la produzione. Per esempio, se i salari vanno giù da 10$ a 9$, ma l'impiego totale sale da 90 milioni a 100 milioni di stipendiati, allora la manodopera ha la stessa quantità di "entrate totali" con cui comprare beni e servizi, quindi non c'è ragione di aspettarsi un collasso nelle entrate dell'impresa.



Conclusione

L'intero sistema della General Theory di John Maynard Keynes si basa sul pretesa che sotto il laissez-faire, il mercato del lavoro potrebbe essere impantanato in un equilibrio con un'ampia sovrabbondanza, per anni ed anni. Ma Keynes dedicò solo un paio di pagine a questa asserzione. Il suo ragionamento è errato sia su base empirica che teorica. In assenza di interventismo di governo, stipendi e salari si aggiusterebbero per ripulire il mercato del lavoro. Nel mondo reale, c'è certamente "disoccupazione involontaria", ma cià è colpa del governo, dei sindacati e delle distorsioni della banca centrale.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


3 commenti:

  1. Mi sono appassionato alla lettura di questo articolo e da neofita quale sono, il solo leggere mi appassiona e mi apre la mente, cosa questa che non puo far altro che bene.
    Cmq credo che oggi siamo vittime di un PECCATO ORIGINALE per quanto concerne il salario e il pagamento del lavoro dipendende, mi spiego meglio, nei giorni scorsi ho detto che il baratto è stato la primitiva forma di libero mercato fra gli uomini, però, c'è un però molto importante si perchè un conto è raccogliere un frutto da un albero nel bosco e scambiarlo con una conchiglia trovata nella spiaggia, un'altro è lavorare per ottenere quel frutto e scambiarlo con un altro oggetto trovato per caso, il valore fra le due cose non puo essere lo stesso in quanto il frutto prodotto dalla mano dell'uomo oltre al suo valore intrenseco va sommato il valore del tempo e della fatiche che ci sono volute per produrlo.
    Oggi noi valutiamo il valore dei beni in base al mercato (domanda e offerta) ma per essere giusta la valutazione del bene non dovremmo sommare al valore del bene anche la manodopera impiegata, per il semplice fatto che il lavoro impiegato è un fattore esterno al valore del bene espresso dal mercato, il mercato si limita giustamente a dare il valore in base alla domanda e all'offerta, non puo considerare quanti operai sono stati impiegati per produrre una certa quantità di beni, per il mercato che sia stata 1 singola persona o 100mila a determinare una certa quantità non importa. Ora non voglio spingermi in ragionamenti che di sicuro io non sono all'altezza di fare, le mie sono semplici riflessioni di un qualsiasi cittadino che vede delle contraddizioni nel sistema in cui si vive, però ho letto qualcosa da qualche parte sul come dividere il valore proprio di un bene determinato liberamente sul mercato, dal costo del lavoro umano impiegato per produrlo, e sono dell'idea che sviluppare un sistema che distingua le due cose possa essere un alternativa valida, e anche semplice da attuare, al sistema attuale. Si tratterebbe a mio avviso di modernizzare la teoria austriaca, dando però alle due cose il suo valore in modo distinto, cosi che il mercato possa correttamente valutare un bene per cio che rappresenta in un determinato momento storico, mentre la manodopera è la costante necessaria per andare avanti ed adeguarsi alle necessità della società.

    UUUUUHHHH chissa che sfondoni ho detto cmq a volte è bello volare con la mente......

    CIAO

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  2. ui si apre un vespaio sul valore e sulla determinazione dei prezzi.

    Il mercato non considera il bene "mela" come la quotazione del bene in se stesso scevro dai costi di produzione, nel vendere il bene l'agricoltore compone il peso includendo anche tutto il lavoro, i beni impiegati e il tempo speso, più il proprio profitto.

    Separare il bene dal lavoro secondo canoni assoluti è impossibile:

    Non esiste il valore assoluto di una mela, di un pezzo di terra, di un chilo di ferro o di un ora di lavoro umano. Tutto varia dinamicamente e dipende dalle valutazioni soggettive.

    Es: Un chilo di mele per un abitante di una zona piena di meli vale 1 unità, mentre per un abitante di un posto dove le mele sono rare, quello stesso chilo di mele vale 100 unità.

    Qual'è il vero "valore assoluto" di un chilo di mele fra i due? Nessuno dei due e nemmeno una media dei due. Il valore sta variando in questo caso in base allo spazio (la terra con poche mele), la disponibilità diversa e al desiderio del singolo di avere le mele. Mutando queste condizioni muterà anche il valore.

    Per questo non possiamo avere un indice generale dei "prezzi assoluti".

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  3. Oggi noi valutiamo il valore dei beni in base al mercato (domanda e offerta) ma per essere giusta la valutazione del bene non dovremmo sommare al valore del bene anche la manodopera impiegata, per il semplice fatto che il lavoro impiegato è un fattore esterno al valore del bene espresso dal mercato

    Ciò implicherebbe l'introduzione della teoria del "lavoro sociale" di Marx :)

    Nessuno nega che il lavoro costituisca parte del valore di un oggetto: una casa vale sicuramente di più della sua somma di mattoni, cemento, ecc. Nessuno nega che per chi "offre un bene/servizio" il lavoro ha un peso rilevante e fondamentale, ma non è la sola cosa che va a determinarne il valore. Inoltre tutto ciò va a "creare" il valore che l'offerente dà al suo bene (come unità) e non tanto al bene in sé, in modo oggettivo. E' riduttivo però considerare il lavoro (sociale) come l'unico fattore discriminante.

    Restiamo sull'esempio della casa.

    Vado a comprare una casa per me e mia maoglie. Me ne vengono proposte due, assolutamente uguali, prodotte dalla stessa impresa edile. Hanno lo stesso prezzo. Una però risente di un difetto di fabbricazione e contiene meno ferro nel cemento di quanto dovrebbe. Nessuno se n'è accorto e tanto meno io posso capirlo dall'osservazione. Diciamo che tale la casa sia la seconda.

    Le due case potranno essere vendute a prezzi differenti (o uguali) a seconda di chi le comprerà e quando le comprerà (immagina 6 anni fà in America). Molte giovani coppie hanno acquistato ultimamente casa a dei prezzi anche molto alti: per loro però quella casa rappresenta molto di più che il prodotto di mattoni, tegole, cemento e del lavoro dei muratori. Ha un valore ulteriore, non misurabile e fortemente soggettivo.

    La stessa casa, se comprata da uno "speculatore", avrebbe avuto per lui un valore molto diverso, non credi?

    Il problema è: se per chi vende fosse soltanto il "lavoro sociale" a determinare il valore di un bene, per chi compra però le cose sono un pò differenti. A volte l'acquirente non può neanche valutare il "lavoro sociale" alla base di un bene ed in ogni caso il valore che gli dà è fortemente influenzato da una componente soggettiva, dipende da quanto questo "soddisfa" i suoi bisogni e le sue esigenze.

    A questo punto dovrei spendere qualche parola in più sul valore soggettivo, ma vedo che Giuseppe ha già fatto un buon lavoro. :)

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